Papille, il seguitissimo critico gastronomico fuori dagli schemi, amato dal popolo e temuto dai più grandi chef, perde l’uso della lingua e del gusto per la vendetta di uno chef stellato.
Puntate precedenti
Capitolo 1 – Panace di Mantegazza
Capitolo 4 – Mignon vegani, alici, cacao e melanzana
Capitolo 6 – Pomodoro Ciettaicale
Capitolo 9 – Zuppa di pipistrello
Capitolo 10 – Tramezzino pollo e insalata all’obitorio
Capitolo 16 – Rosmarino e basilico
Capitolo 17 – Falange di granchio oceanico
Capitolo 21
Latte materno
L’istinto materno non lo risolvi. Quello è un timbro, dottoressa. La donna, anche in punto di morte, se lo tiene. E io lo odoro in ogni piatto femminile. Questo uniforma tutte le Chef, per quanto si dannino a nasconderlo.
A casa ho una sola foto di mia madre. Non ho molto da dire su di lei. È morta che ero piccolo. Nella foto c’è lei che traffica con una teglia di biscotti. Se non ricordo male li faceva tutte le mattine.
La maternità è una condizione radicata nelle donne. Se la rifiutano, si vede. Se la evitano, si vede. Se la rimandano, si vede. Se non possono avere figli, si vede. Anche se il loro partner non può avere figli, si vede. Poi, se la vivono, figuriamoci. Dottoressa, è così.
Il piatto più entusiasmante però, primordiale, onesto e potente che abbia mai assaggiato, è l’eccezione che conferma la mia regola.
Ero a Londra per recensire il ristorante Hibiscus, che perse una stella Michelin lo stesso anno. Direi per causa mia. Perdoni la precisazione dovuta.
Insomma eccomi a Londra. Trovo per caso questa pasticceria che mi attira per la raffinatezza del locale.
Entro. Legno chiaro. L’odore di caramello si mischia con il cacao e a quella fragranza indiscutibile di fritto che toglie poesia ma piace al popolo. Dentro non c’è nessuno. È una pasticceria piccola. Il bancone ha solo due prodotti. Mi avvicino.
Plum cake di cacao monorigine criollo con petali di orchidea e panna da latte materno. Rileggo il cartellino, incredulo. Plum cake ripieno di cacao monorigine criollo con petali di orchidea e panna da latte materno. Dottoressa, per uno come me che ha assaggiato tutto e non si stupisce davanti a nulla, fu un bel colpo.
Poi, l’altro prodotto. Vuoto di zucchero e meringa fruttata con riduzione di latte materno su biscotto di grano duro alle rose.
Mi guardo intorno. Non ci sono liste ingredienti. Mi schiarisco la gola, così magari appare qualcuno. Nessuno. Due schiarite di gola più forti. Niente.
Il bancone è elegante in uno stile barocco. I due prodotti sono divisi da alcuni petali celesti e rosa. Sono ben distanziati. Dottoressa, mi crede se le dico che il giorno dopo quella pasticceria non l’ho saputa ritrovare?
Sui muri sono affissi quadri di momenti di lavorazione pasticcera nelle case della Gran Bretagna di inizio novecento, lo capisco dagli abiti. Per il resto colori tenui mischiano crema e avorio.
– C’è nessuno?
Guardo di nuovo i due dolci. Poi il retro del banco. Oltre a un muro intero di strumenti da pasticceria, non vedo altro. Niente confezioni per l’asporto, niente pubblicità o cucchiaini. C’è solo una porta che penso dia sul laboratorio.
Io l’attesa dottoressa non la sostengo. C’è un tempo per mangiare, bere ed essere serviti. Se non batti quel ritmo il gusto si perde e tu che cucini sei fuori. La fame si sazia di nervosismo. Questo lo si impara subito. Qualcosa deve accadere prima che sia troppo tardi.
La porta resta serrata. Guardo di nuovo i dolci con attenzione.
E comprendo. Come ho fatto a non capire? Qui c’è tutto ciò di cui ho bisogno.
L’assenza. Eh sì dottoressa, il distacco, l’assenza del pasticcere. L’essere umano che lascia il palco tutto al prodotto. E cosa c’è nel prodotto? Latte materno. E qui intuisco il pasticcere sia una donna. Una donna che ha capito il concetto primordiale dell’alimentazione. Vuole gridare la centralità del genere femminile e il valore unico del cibo. L’uomo, da solo, in cerca di nutrimento. Come ho fatto a non pensarci?
Mi sono emozionato come uno scolaretto dottoressa.
Io che cerco di combattere l’egocentrismo culinario dell’essere umano, rischio di lasciarmi sfuggire tale opera d’arte? forse, dottoressa, sto perdendo colpi.
Da quale dei due dolci partire? Mi servirò da solo, chi li ha prodotti vuole questo. Un neonato cerca il seno materno per nutrirsi e la madre lo offre nel vuoto che li circonda in un momento unico come l’allattamento.
Dottoressa, non mi prenda per matto. È così. Mi sono ritrovato a voler mangiare spinto da una voracità ancestrale.
Scelgo il plum cake di cacao monorigine criollo con petali di orchidea e panna da latte materno. Giro intorno al bancone che quasi mi sento un ladro. Il mondo di fuori l’ho dimenticato. Ci sono io e basta.
Infilo le mani dietro il bancone e lo prendo.
La pasticceria inglese non l’ho mai amata. Sempre molto saporita e poco elegante.
L’odore invece è delicato. Il plum cake al tatto è ancora caldo. Lo mordo e chiudo gli occhi. Vedo mia mamma accarezzarmi. Il cacao mi scalda la guancia, l’orchidea mi rinfresca il palato mentre lei mi sorride, mastico. Sento il latte con cui è fatto il plum cake dottoressa, sento la consistenza lipidica, il sapore unico come fosse un ricordo che sta lì stampato nella mia testa. Mia mamma mi abbraccia. Deglutisco e apro gli occhi.
Il negozio è ancora deserto. Nessuno fuori, nessuno oltre la porta che dà sul retro. Il dolce più buono che abbia mai mangiato.
Passo al vuoto di zucchero e meringa fruttata con riduzione di latte materno su biscotto di grano duro alle rose.
È una meringa a forma di cerchio. Lo prendo dalla vetrina e do un morso. Sento i frutti di bosco, selvaggi. Chiudo gli occhi. Vedo mia madre di nuovo, sta andando via. Se ne va dottoressa, me la immagino il giorno in cui è uscita di casa e non è tornata. Dico la immagino dottoressa perché io sono cosciente, so di essere a Londra dentro una pasticceria ma la vedo. Il biscotto copre tutto il resto. Lo zucchero è così ben bilanciato da far dimenticare la dolcezza, sento il grano, l’albume mi asciuga il palato che rimane pulito, vuoto. La lascio andare. Ho ancora gli occhi chiusi e sono solo davanti la porta di casa e vorrei rincorrerla e stringerla e pregarla di non andare. Un velo di nostalgia mi si posa sul petto. Mordo di nuovo la meringa perché quel vuoto non lo reggo e il lampone mi esplode in bocca, la porta resta chiusa e mia madre non torna.
Dottoressa, vede, il cibo è evocativo. A mio avviso in particolare gli odori. Ma questa roba, questa roba è potente.
Insomma finisco la meringa ed è stata l’unica volta in cui posso dirle di aver sentito la mancanza di mia madre.
Faccio per avvicinarmi alla porta sul retro. Devo presentarmi, devo parlare con la mente che ha creato questi capolavori e mostrarla al mondo intero per stracciare centinaia di cialtroni. Mi chino per guardare dalla serratura.
Mi fermo poco prima.
Mi interessa davvero? È quello che voglio? Penso.
E mi rispondo di no.
Lascio venti pound sul bancone non trovando il prezzo dei dolci ed esco.
Lei dottoressa mi chiede perché non ricordi come tornare in quella pasticceria? Io non lo so.
Ero così frastornato che ho dimenticato di vedere in che via si trovasse la pasticceria. Ho camminato senza meta per ore prima di ricompormi per dirigermi all’Hibiscus.