Sospettoso, poco accomodante, duro a cedere a sé stesso e agli altri, solitario eppure passionale, non sa né può mischiarsi alla tumultuosa corrente letteraria che lo circonda. “Io sono nato un secolo troppo tardi”, dice di sé, sentendosi estraneo al suo tempo, perdendo ogni giorno contatto con i suoi contemporanei che gli preferiscono poeti mediocri, più adatti ai loro gusti e alle loro sensibilità. Per levatura, affinità intellettuali, per la limpida perfezione stilistica, è ancora un elisabettiano quando è già iniziata quell’evoluzione del gusto che oscura la fama di Shakespeare, per il quale John Milton proclama intatta la sua ammirazione. Il padre, costretto a esercitare la professione di notaio, in contrasto con le attitudini artistiche e l’inclinazione musicale, è generoso di consigli e di aiuti e mette a disposizione con insolita larghezza mezzi e finanze perché il figlio segua la via liberamente scelta.
Come accade nel periodo elisabettiano, anche per Milton nessuna educazione può ritenersi compiuta senza una visita al paese ritenuto il centro per eccellenza dell’arte e della cultura. Partito da Londra, si ferma solo qualche giorno a Parigi, smanioso di giungere in Italia. Passa la frontiera presso Nizza, s’imbarca sulla nave che lo porta a Livorno. Prosegue per Pisa e di qui giunge a Firenze che rappresenta per Milton la tappa ideale del suo viaggio. Ancora Firenze trionfa nella magnificenza delle sue chiese, dei palazzi delle ville a tal punto da apparirgli come un sogno rispetto all’oscuro quartiere di Cheapside a Londra.
Nella patria delle accademie, – ce n’erano 500 in tutta Italia –, non scevre da un certo pedantismo umanista, si trova a suo agio. “Sono stato ricevuto appena arrivato da vari nobili e dotti e invitato a frequentare le loro accademie che sono istituzioni degne di ogni elogio sia per la diffusione della cultura sia per il mantenimento dell’amicizia”. È lusingato dei festeggiamenti e dei versi latini con i quali è esaltato e non tiene conto o forse ignora che i verseggiatori del tempo onorano con eguale esaltazione qualunque ospite si presenti alle loro riunioni. Frequenta con maggiore assiduità l’Accademia degli Svogliati che si riunisce da Carlo Diodati a Piazza Madonna. Durante la permanenza a Firenze, durata due mesi, entra sempre di più in familiarità con i suoi letterati, scrivendo versi in italiano di rara eleganza, dando consigli filologici tanto da suscitare l’entusiasmo in tutte le conventicole letterarie che frequenta. La dimestichezza con gli accademici fiorentini gli procura un altro onore, quello di conoscere Galileo Galilei, “che viveva ormai vecchio e prigioniero della Inquisizione, reo di considerare l’astronomia con un diverso criterio da quello tracciato dai Francescani e dai Domenicani regolatori del pensiero umano”.
Accenna a Galileo nel Paradiso Perduto:
Simile a luna, il cui orbe a traverso
L’ottico vetro scruta a notte il tosco
Artista in vetta a Fiesole o in Valdarno
E nuove terre egli vi scopre e fiumi
E monti nel suo maculato globo
[Paradiso perduto libro I 187 e seg.]
L’incontro dei due grandi spiriti, figure rappresentative del XVII secolo, nella solitaria torre d’Arcetri, dell’astronomo ormai cieco e del letterato destinato alla cecità, è stato a lungo fonte d’ispirazione per poeti, pittori e scultori.