La cronaca genera mostri e genera pure superficialità, commenti veloci, frasi orecchiate, mezze verità mai indagate fino in fondo. Ogni tanto c’è bisogno di fare un punto, di fermarsi per riflettere e osservare da vicino, anzi ancora più che da vicino, da dentro le situazioni, scavando tra i pensieri, le confessioni, dei protagonisti. È quello che hanno fatto Angela Infante, Andrea Mauri e Filippo Maria Nimbi per affrontare il fenomeno del chemsex. Una counselor, uno scrittore e uno psicologo dei comportamenti sessuali per provare a fare luce sulla realtà di ragazzi che fanno sesso sotto l’effetto di un cocktail di ingredienti come cocaina basata, mephedrone, crystal, ecstasy, ketamina, viagra. Il risultato è un agile volume intitolato Ragazzi chimici, edito da Ensemble, che raccoglie dieci confessioni di giovani che hanno visto la loro vita stravolta molto più di quanto potessero pensare quando hanno “provato” magari sotto lo stimolo di un partner più smaliziato. Ho pensato che fosse interessante ascoltarli tutti e tre per ricostruire il loro punto di vista diverso, ma convergente, al riparo dagli eccessi raccontati sui giornali.
Com’è nato il vostro interesse di studiosi per il “chemsex”?
ANGELA: Sono la counselor della UOC di Malattie Infettive e una educatrice. Lavoro con e per le persone sieropositive. Durante i miei incontri, sempre più spesso, e come sempre sul finire della conversazione, i ragazzi che incontravo mi raccontavano della loro frequentazione di chill. Ascolto storie, racconto storie, a volte le scrivo e, allora, mi sono lasciata trasportare dal fiume di parole che mi regalavano. Sono anche un’attivista e questo mi permette di entrare nelle vite altrui con genuino interesse, sempre senza giudizio.
ANDREA: Sono stato catapultato da Angela in questa avventura. Avevo sentito parlare di chemsex. Avevo letto articoli e visto servizi in tv sull’argomento, soprattutto quelli realizzati dalla stampa britannica, prima che il chemsex sbarcasse in Italia. Quando Angela mi ha proposto di partecipare al progetto, ho accettato subito.
FILIPPO: Mi sono avvicinato a questo tema in molti modi, ascoltando storie di persone che lo praticavano e interagendo con la comunità LGBT+, ma il momento di svolta è stato nel 2018 quando ho avuto la possibilità di conoscere David Stuart, uno dei massimi esperti internazionali in questo ambito, in un congresso di Sessuologia all’estero. Li ho capito la necessità di indagare più a fondo questo fenomeno in Italia come ricercatore.
Le droghe sono state spesso usate per l’attività sessuale ma sono entrate recentemente in pagine terribili della cronaca nera, siete stupiti di questo oppure vi sembra una conseguenza inevitabile?
ANGELA: Non mi stupisce, ho vissuto la mia adolescenza negli anni ’70 e questo la dice lunga. Il consumo di droghe fa parte dei nostri “corsi e ricorsi storici”, quello che mi stupisce è che non facciamo tesoro delle esperienze. La cronaca nera, poi, se fosse scritta analizzando tutti gli elementi con spessore, citando le fonti sarebbe un ottimo strumento di studio di tutti i fenomeni; io la definisco cronaca macabra, a volte ai limiti del ridicolo. Fare cronaca in questo modo non stimola la crescita personale nei confronti di un dato fenomeno, forse cresce solo per l’audience e lo share. Sembra che abbiamo necessariamente bisogno di una visione dualistica che ci metta al riparo dalle nostre paure: una vittima e un carnefice.
ANDREA: Stupito no, perché ritengo che l’uso massiccio e prolungato di sostanze stupefacenti possa spingere soggetti con gravi disturbi della personalità ad alterare la propria visione della realtà e a commettere atti molto gravi. Non credo che si tratti di una conseguenza inevitabile. Di sicuro un’informazione più completa sull’uso e abuso di sostanze avrebbe degli esiti positivi. Non si è fatto tesoro delle esperienze passate.
FILIPPO: Questo non mi stupisce. Il consumo di sostanze psicoattive ha sempre fatto parte della nostra vita e della nostra società, ma rappresenta ancora un tabu molto forte, un argomento di cui si parla poco e in maniera spesso semplicistica. Non è un caso che spesso se ne parla principalmente in relazione a delitti ed eventi di cronaca nera. La comunicazione in questo ambito a mio avviso spesso enfatizza l’uso di sostanze e il comportamento sessuale come elementi che “colorano” e rimarcano la devianza dei carnefici e, a volte, anche delle stesse vittime.
Secondo voi, esiste una maggiore propensione all’uso delle droghe nel mondo gay piuttosto che in quello etero?
ANDREA: Di primo acchito si potrebbe rispondere: be’, certo, gli omosessuali si sballano perché sono pressati dalla società che non li accetta, perché devono sempre dimostrare di essere all’altezza di ciò che gli viene richiesto in famiglia o nella società. È il cosiddetto minority stress, che ci spiega bene Filippo. Però poi dovremmo ampliare l’orizzonte: chi non si è mai sentito pressato dalle aspettative della famiglia o della società? Chi non si è mai sentito inadeguato? Per un motivo o per un altro in molti ci sentiamo così, etero e omosessuali. Quindi direi che l’uso di droghe non è collegato all’orientamento sessuale. C’è comunque da dire che attualmente il chemsex si concentra soprattutto tra i cosiddetti MSM (men who have sex with men). Non abbiamo dati ufficiali, ma ci sono segnali che il fenomeno è in fase di espansione.
FILIPPO: consumo di sostanze è molto diffuso in generale, a prescindere dall’orientamento sessuale. Quello che può cambiare è il significato che viene dato alla sostanza in situazioni e contesti diversi, anche sulla base del tipo di sostanze che circolano, dei costi e degli effetti. Focalizzandoci sull’orientamento sessuale, il minority stress (stress dovuto dal fatto di appartenere ad una minoranza) è un concetto importante che aiuta a comprendere come mai alcune persone della comunità LGBT+ soffrono più spesso per la propria salute psicologica e possono mettere in atto comportamenti a rischio.
ANGELA: Per la risposta a questa domanda mi trovo perfettamente in sintonia con quanto detto da Filippo, non credo sia necessario aggiungere altro.
Come avete scelto le storie dei vostri “ragazzi chimici”?
ANGELA: Abbiamo raccolto molte storie, in questo mi sono affidata molto all’esperienza di Andrea, senza tralasciare le parole che più hanno avvolto il mio cuore. È stato tutto molto istintivo, almeno per me.
ANDREA: Angela ha raccolto le interviste, che poi prevalentemente erano videointerviste. In base a ciò che i ragazzi hanno raccontato, ne abbiamo scelte dieci, quelle che ci sembravano più rappresentative e che mostravano un ventaglio ampio di situazioni tipo nel chemsex. Ne ho sbobinato il contenuto, appuntandomi gli elementi chiave dal punto di vista narrativo e osservando il video per capire un po’ di più di questi ragazzi. Le videointerviste sono state l’unico mezzo con il quale sono entrato in contatto con i protagonisti dei racconti, non essendoci mai incontrati personalmente.
Nel raccontare le loro esperienze avete usato un registro che mi ha colpito, da una parte siete riusciti a evitare una narrazione troppo romanzata dall’altra però avete mantenuto la personalità di chi si confessava, come in un racconto di narrativa. Come avete proceduto?
ANGELA: Credo che Andrea sia la persona più competente per rispondere; io posso parlare per l’unica storia che ho scritto. L’ultima storia racconta di un ragazzo che non ho più incontrato e che mi aveva espressamente chiesto di lasciare la storia così come l’aveva letta. Gli ho dato la mia parola che sarebbe stata pubblicata come lui l’aveva letta.
ANDREA: come ti dicevo prima, mentre sbobinavo le interviste, stavo con un occhio al video per fare attenzione ai dettagli: lo sguardo, le smorfie del viso, la gestualità, il modo di muovere il corpo. Insomma prendevo nota degli elementi che caratterizzano una persona. Contemporaneamente mi appuntavo quelle che consideravo le parole chiave della storia, quelle che potevano essere narrativamente appetibili. Avevo l’esigenza di romanzare le vicende narrate dai protagonisti, senza però tradire la loro esperienza e soprattutto l’anonimato, da loro espressamente richiesto. A un certo punto, raccolti tutti gli elementi, le storie si sono sviluppate rapidamente. La prima stesura è stata molto veloce, cosa che mi succede raramente e di cui io stesso mi sono stupito.
I protagonisti hanno letto quello che avete scritto e come l’hanno commentato?
ANGELA: La prima cosa che mi hanno detto è stata “sono tutte emozionanti, la mia meno delle altre”; il nostro giudice interiore non smette mai di “fare danni”! Al mio invito a rileggersi non solo nella propria storia, ma anche in quella degli altri, hanno riconosciuto che il commento era solo legato ad alcune loro paure. Quello che invece mi ha reso una donna orgogliosa è stato il fatto che, indipendentemente da orientamento, genere, età, provenienza geografica, trasversalmente ogni persona poteva essere la persona che si stava raccontando. Ci sono sensazioni, emozioni e pensieri che ci accomunano, anche se il giudizio è sempre in agguato.
ANDREA: i “ragazzi chimici” sono andati a leggere prima il racconto che li riguardava e poi le altre storie. Tutti ci hanno detto di essersi riconosciuti nel loro racconto e cosa per me ancora più bella, hanno ritrovato parte di loro anche nelle altre storie. Quindi c’è un filo conduttore che li unisce anche nelle esperienze apparentemente più distanti.
FILIPPO: Molti si sono riconosciuti non solo nelle proprie storie, ma anche in quelle degli altri protagonisti. Questo è capitato anche ad alcune persone che si rivolgono a me per problemi relativi al chemsex a cui ho consigliato di leggere il libro. Le storie possono essere molto diverse, ma in tutte riusciamo a trovare qualcosa di nostro, ragazzi chimici e non.
Che persone sono quelle che avete incontrato, c’è un tipo psicologico più predisposto, secondo voi, a queste esperienze?
ANGELA: La cosa che mi ha colpito di questo fenomeno è la sua trasversalità. È un fenomeno democratico; quanto ci piace “incasellare” per paura di uscire dalla nostra “confort zone”. Credo che tutti nella nostra breve esistenza siano predisposti a…
ANDREA: rispondo da osservatore del fenomeno. Ciò che ho notato è che il chemsex è trasversale. Dentro c’è un po’ di tutto. C’è chi vuole dare sfogo alle fantasie sessuali, lasciando da parte inibizioni e autocensura. C’è chi vive male il proprio corpo e si sente più a suo agio nei chill. C’è chi è affetto da un’esagerata mania di controllo e riesce a rilassarsi solo con il chemsex. Ci sono persone che soffrono di solitudine, che provano il chemsex cercando un affetto, uno scambio. Mi ha molto colpito la testimonianza di un ragazzo che ha raccontato come in questi incontri, oltre a fare sesso, talvolta accade che si creino anche dei momenti intimi, di confidenza e di scambio sull’esperienza vissuta.
FILIPPO: La cosa che colpisce di questo fenomeno è la sua trasversalità. Nella mia esperienza non ci sono tipi di personalità o tratti predominanti, ma ci sono spesso vissuti legati al piacere, alla sessualità, all’intimità e allo stare insieme in gruppo. Sono presenti anche senso di colpa, tristezza e paura con toni e sfumature diversamente legate alle droghe e alla sessualità. Ma non necessariamente si finisce nella dipendenza.
Mi pare che ci sia spesso, se non sempre, una persona amata, più grande, oppure una personalità più attiva, che introduce il protagonista in queste situazioni. C’è un rapporto vittima-carnefice che s’instaura in questi casi?
ANGELA: Le esperienze sono le più differenti, come sono differenti le modalità e le motivazioni per avvicinarsi a questi incontri.
ANDREA: secondo me questa personalità di spicco può considerarsi più una guida ai chill e talvolta anche un coordinatore, che un carnefice. Teniamo presente che alcuni incontri sono organizzati seguendo regole predefinite in modo da ridurre gli eventuali danni da assunzione di droghe. La maggior parte degli incontri però vengono organizzati in chat e in questo caso è più difficile parlare di organizzazione. C’è anche la persona amata che introduce il protagonista al chemsex. Può essere più grande di età o comunque con più esperienza. Esistono casi in cui il chemsex viene praticato in coppia. Nel tempo può rimanere esclusivo oppure aprirsi a gruppi più numerosi.
FILIPPO: Questo elemento può essere comune ad alcune storie, ma non racconta l’esperienza di tutti. Parlare di vittima-carnefice è riduttivo e spesso errato in questi contesti. Le persone possono avvicinarsi al chemsex da sole, tramite internet oppure avvicinarsi tramite amici e amanti, ma quasi sempre per libera scelta.
Uno dei protagonisti dice: “senza la chimica il sesso non funziona”, è quello che accade in realtà nella vita di questi ragazzi?
ANGELA: Mi è stato raccontato di questo sesso strabiliante durante sessioni di chemsex, con dovizia di particolari e immagino la perplessità riguardo alcuni loro timori che si traducono in: “se torno a fare sesso in maniera “sobria” mi divertirò? Il sesso sobrio non sarà noioso?”. E qui torniamo ad un dualismo cosmico in cui cadiamo sempre, e ne parlo con loro esponendo il fatto che le esperienze sono differenti, non sono mai replicabili e non dovrebbero costruire paragoni. Diciamo che non è semplice.
ANDREA: il chemsex produce forti emozioni che lasciano il segno. I ragazzi sentono di avere dei “superpoteri”, per citare uno dei protagonisti. Si sentono liberi e appagati di avere finalmente espresso le proprie fantasie sessuali. Sperimentano i limiti, ne costruiscono di nuovi e oltrepassano anche quelli. A un certo punto però alcuni si fermano a riflettere: com’era il sesso senza chimica? Com’era il sesso prima? Questi interrogativi sono emersi dai loro racconti. E da qui per alcuni è iniziato un nuovo percorso.
FILIPPO: Nella vita di alcuni ragazzi questo accade e spesso è uno dei motivi che li spinge a chiedere aiuto ad un professionista della salute. La sessualità nel chemsex è qualcosa di diverso dalla sessualità “sobria” (senza sostanze), che può essere molto piacevole e stimolante, ma anche molto lontana nelle dinamiche e nei vissuti.
Mi sembra che voi consideriate questa situazione come una vera emergenza sociale, le strutture sanitarie o di assistenza, sono in grado di occuparsene?
ANGELA: I servizi pubblici sono pochissimi, perché il fenomeno è relativamente nuovo, notoriamente l’Italia è un paese che lavora molto bene sull’emergenza, ma non brilla sulla prevenzione. L’associazione A.S.A. Onlus – Associazione Solidarietà AIDS – di Milano, è un esempio virtuoso. Un altro aspetto che mi preme sottolineare è l’importanza di fare formazione, non solo agli operatori di associazioni che si occupano di questa tematica, ma anche agli operatori sanitari. La conoscenza è la miglior forma di prevenzione, soprattutto contro il pregiudizio.
ANDREA: quello che i ragazzi chimici lamentano è l’approccio inadeguato di queste strutture al chemsex. Bisogna informare correttamente sugli effetti delle sostanze tipiche del chemsex, oltre a tenere presente che l’associazione chemsex – dipendenza non è sempre applicabile, perché non tiene conto del cosiddetto “uso ricreativo” delle sostanze. Quindi secondo me l’approccio al fenomeno dovrebbe essere rivisto.
FILIPPO: Io mi occupo di questo tema come ricercatore e come clinico in uno studio privato. Ci sono pochissimi servizi pubblici che si interfacciano con questo fenomeno e che sono in grado di dare una risposta efficace. Gli stessi consumatori che hanno provato a chiedere aiuto in servizi per le dipendenze spesso non si sono sentiti accolti e compresi. Da qui nasce l’urgenza di una formazione specifica per gli operatori oltre che l’apertura di veri e propri servizi ad hoc. Ci sono esempi che rappresentano il fiore all’occhiello come ASA a Milano.