Entro nell’enorme laboratorio della fabbrica di gelato poco fuori Roma, sono ospite grazie a un amico per un progetto di qualificazione del prodotto industriale rispetto a quello artigianale. Insomma vogliono un parere.
Mi guardo intorno. L’ambiente è sterile, pulito, tutti hanno camici bianchi lunghi da medico e gli occhiali. Spingono pulsanti di un grosso macchinario, si apre una bocchetta di metallo da cui cola un composto in una grande tinozza piena fino all’orlo. Un monitor analizza i gradi Baumé e le percentuali di solidi inserite nella miscela. Tutto intorno sento suoni e meccanismi attivarsi.
Il mio amico mi presenta, gli operai mi salutano e un tipo dal camice blu scuro, a occhio il responsabile, mi chiede diretto cosa potrebbe dare un taglio più intimo, emotivo, al gelato prodotto in questo modo.
Lo guardo, guardo tutti i presenti e sento dell’aria soffiare forte attraverso un macchinario alle mie spalle per gonfiare il gelato.
Così decido di farlo, perché credo sia giusto. Quello che nessuno di loro racconterà.
Vado verso la grossa tinozza e avvicino la mano all’altezza del petto. Con attenzione sfilo fuori dalla carne la mia anima, lo spirito che porto con me, che tutti o quasi portiamo con noi. Ne sfilo una parte e senza provare dolore ne strappo un pezzettino. Tutti si muovono mi guardano e vedono questo lembo luminoso dalla mia mano finire nel grosso calderone con la miscela.
Alcuni ridono credendo fosse uno scherzo, altri in silenzio si guardano i piedi mentre il capo reparto con l’aria piccata mi ringrazia con un sorriso ironico e si congeda.
Ho saputo poi che in alcuni supermercati le vendite proprio di quella partita di prodotto sono aumentate per un breve periodo, per poi stabilizzarsi sul livello precedente.
È che il gelato industriale non ci interessa sia buono o cattivo. Il gelato industriale non ha anima.