Andrea Carraro: “Quel personaggio sono io o non sono io? Ma importa davvero saperlo?”

Il mobbing, l'arte e il lavoro, il rapporto con la famiglia, la psicologia, la vita, tutto risuona nel romanzo "Il sorcio"

Esiste una linea sottile tra il racconto di una vicenda, anche interessante, e la letteratura. La stessa linea che esiste tra una vicenda vera ben raccontata e un’opera artistica. Ma anche tra un discorso autobiografico e un testo che diventa universale perché riesce ad andare oltre la vita di chi scrive. Andrea Carraro ce lo mostra in questo libro che viene ora riedito da Elliot, dopo una prima uscita addirittura nel 2007 per Gaffi, Il sorcio. Cos’è che fa la differenza? Probabilmente due cose. Da una parte c’è la forza di una scrittura che non cede ai luoghi comuni, anche se racconta tra l’altro una storia d’attualità, il mobbing su un giovane impiegato, umiliato soprattutto da un collega (chiamato il Sorcio, appunto) perché è uno scrittore che non sa adattarsi alla routine alienante del lavoro. Dall’altra la profondità di uno sguardo che non fa sconti a nessuno, né all’eroe protagonista (che pure è tanto vicino allo scrittore nella sua esperienza reale da esserne sicuramente un alter ego), né ai vari antagonisti e comprimari della vicenda. Una lettura che coinvolge e non consola se non in un anelito finale, costruita attraverso diversi livelli stilistici e di narrazione, la seduta psicologica, il flusso interiore, le scene grottesche e ironiche che riescono anche a strappare un sorriso divertito. Ancora più completo e potente in questa nuova versione, Il sorcio è forse il romanzo più compiuto e ambizioso di Andrea Carraro, l’opera migliore di un autore che ha all’attivo un lungo e felice cammino nella narrativa, l’autobiografia, il reportage, la poesia, la critica, che trova in questa narrazione una tappa decisiva che comprende tutti questi generi.

E ora qualche domanda e risposta per lasciarci raccontare da Carraro il suo Sorcio.


La quarta di copertina di questa nuova edizione riporta una serie di commenti molto belli della migliore critica italiana ai tempi della prima uscita, cosa pensi leggendoli?

Sì, il libro ebbe una ottima rassegna stampa. Beh, si cerca di attirare un po’ l’attenzione su un libro “vecchio” di 13 anni che io ho voluto riscrivere, o meglio sviluppare, ampliare con la mia sensibilità di oggi. Naturalmente quei giudizi mi inorgogliscono, sono stati scritti da scrittori e critici che stimo e a cui voglio bene, o a cui ho voluto bene, come nel caso del compianto Luca Canali.

Quando rileggi un tuo libro scritto anni prima lo trovi “difettoso”, è per questo che hai deciso di ripubblicarlo con alcune varianti?

Sì, forse il primo movente alla riscrittura di un’opera già edita è quello. Ma il caso del Sorcio è più complesso. Per una serie di motivi. Perché ci ho lavorato tanti anni sopra, fra scritture e riscritture, per un certo periodo era diventato quasi una parte di me quel libro. Lo vivevo giorno dopo giorno e lo scrivevo. E anche perché lo sentivo “difettoso” nel finale fin da subito. Sentivo che nel finale ci mancava qualcosa, che poi ho individuato mentre ne immaginavo una versione per il teatro, o per il cinema. Inoltre, rileggendolo, mi rammaricavo di non aver sviluppato alcuni aspetti del personaggio che non si potevano trascurare, omettere, alcuni temi, quelli familiari, la rivalità col padre in campo letterario, con il climax rappresentato dal Festival di Venezia e dalla morte, andava spiegata meglio, e poi sull’altro fronte, gli scontri con la suocera, i pettegolezzi, insomma quel suo annaspare nella mediocrità… l’obiettivo è sempre la coerenza psicologica del personaggio, a cui tengo molto.  Quel personaggio sono io o non sono io? Ma importa davvero saperlo?

Difficilmente un nomignolo insultante è diventato il titolo di un romanzo (non me ne viene in mente nessuno adesso…), perché “Il sorcio” è così importante nella storia?

È la prima e unica volta che un titolo di un mio romanzo abbia preceduto il libro stesso, ancora prima di scriverlo sapevo che si sarebbe chiamato il sorcio, non poteva chiamarsi che così, quel libro che veniva su mentre il Sorcio mi razzolava attorno tutto il giorno, mi vessava, insomma nel pieno dello scontro/duello con lui. Peccato che esista un altro Sorcio in giro, editorialmente, quello nobilissimo di Simenon recentemente stampato da Adelphi, – anche se il libro in questione non l’ho letto. Simenon, cui peraltro una volta un critico mi accostò, chiamandomi, in una certa cena letteraria cui capitai, Il Simenon del Quarticciolo, o qualcosa del genere…

Il sorcio tira in ballo la questione dell’autobiografia, ma il protagonista sei tu davvero, tu come saresti potuto essere se…, tu ma non te stesso, del tutto un altro che ti somiglia soltanto?

La questione dell’autobiografismo, già. Io non faccio propriamente autofiction. Io cerco prima di tutto la verosimiglianza psicologica e la coerenza drammaturgica. Questo romanzo più di altri è costruito a incastro, tutte le storie aperte andavano chiuse una dopo l’altra nei momenti giusti. La verità va ritoccata in funzione della storia, del romanzo, che hai in mente. È la storia che comanda, non la fedeltà biografica. Io nella realtà non ho mai fatto pestare il vero Sorcio, per dire, – che poi nella realtà veniva chiamato Sola, quel mio collega, e io lo corressi in Sorcio perché mi pareva più giusto per lui, più degradante e più aderente al personaggio. Mentre il nome Sola lo affibbiai a un personaggio del Branco. E il sorcio, il vero sorcio, si riconobbe nel nome e mi disse ridendo davanti alle macchinette del caffè, prima che fra noi scoppiasse il putiferio, “Me devi dà i diritti d’autore!”, questo non l’ho mai scritto. La mia è una autobiografia ritoccata in romanzo, se vuoi, ci tengo molto alla mia inclinazione-vocazione romanzesca – io cerco la verità romanzesca non quella biografica: a un cento punto nel libro Nicolò lo spiega proprio all’analista raccontandogli del suo primo libro, “basta aggiungere le parti che mancano, si faceva ispirato, questa è la tua missione”. Voglio che si parli di Nicolò, insomma, non di me.

È un romanzo che si interroga anche sulla forma del romanzo. Intendiamoci, è sempre romanzesco ma è pure una riflessione sulla scrittura, mentre lo scrivevi sapevi che ti stavi inerpicando sull’annosa questione del senso di scrivere un romanzo oggi?

No, proprio no. È venuto su così, spontaneamente, quell’aspetto diciamo metaletterario, trattandosi di uno scrittore che sta materialmente scrivendo un libro con se stesso protagonista, serviva un “manovratore” per organizzare tutta quella materia autobiografica che la terapia sollevava e metteva in circolo, un demiurgo che la impastasse secondo una logica psicanalitica ma anche narrativa. Questo libro è venuto su in maniera quasi spontanea in banca mentre il Sorcio mi vessava e mi umiliava quotidianamente, forse non l’ho ancora detto in modo esplicito. Lo cominciai per scaricare la rabbia e l’umiliazione, ma lo sfogo veniva subito trattato elaborato psicanaliticamente nel corso delle sedute di analisi con lo psicologo. C’era un travaso quotidiano, dal vissuto alla pagina.

Il mondo del lavoro è descritto con sarcasmo, crudeltà, ma anche con un’ironia feroce sul protagonista e i suoi colleghi. Pensi che uno scrittore, un artista, sia troppo debole per la vita quotidiana?

Anche qui, ho esasperato espressionisticamente certi toni grotteschi, comici, anche per alleggerire un po’ il clima che temevo opprimente del romanzo. Credo, spero che in qualche punto faccia anche ridere. Ci tengo al lato comico del travet bancario, ma anche degli amici goliardi nella sua adolescenza. C’è anche pietas, credo, nel ritratto di certi colleghi operai, in un paio di impiegati con cui stringe amicizia. La cattiveria o crudezza nella rappresentazione è un mio tratto caratteristico, mi viene spontaneo, è anche terapeutico. Sì, è troppo debole per la vita quotidiana, o almeno il mio personaggio lo è, e lo sono anche io che l’ho creato.

Una figura chiave nella storia è lo psicologo. Sembra una figura accudente, quasi un padre buono e saggio, ma espone Nicolò all’abbandono. Necessario per la sua professione, comunque. Cosa pensi dell’analisi?

Ho forzato la realtà biografica, anche qui, perché mi serviva un personaggio attivo, dinamico, che desse una certa svolta alla storia, anche qui la realtà è andata diversamente. Il mio vero analista non mi ha mai abbandonato.

La famiglia nel romanzo qualche volta appare come una trappola, però il lettore si dirà che nella vita vera non è così, no?

La mia esperienza familiare è questa, più o meno. C’è anche qualcosa di buono nella famiglia di Nicolò, tuttavia, qualcosa da salvare. Per esempio, il rapporto con il figlio Filippo si salva dallo squallore generale. Almeno credo. Le altre sono maschere che la società gli ha modellato addosso e bla bla bla. Forse. Ma non devo dirlo io!

Secondo te, il tuo romanzo è una metafora del Male contemporaneo? È una metafora di qualcosa?

Come il branco, ma in diverso modo, è forse allegoria del conformismo sociale che si esprime attraverso il mobbing nel posto di lavoro con la complicità passiva e omertosa dei colleghi. C’è una stretta connessione, una specie di collante, che lega Il branco libro/film e il sorcio, perfino all’interno della storia… Nel pestaggio del Sorcio, il protagonista rivede per un momento nella mente il setting del film tratto dal suo libro, viene raccontata anche la presentazione del film a Venezia ecc.

Il personaggio pare un inetto, quasi incapace di vivere, come se in effetti ci fosse qualcosa di irrisolto nella sua condizione, però ne esce in una catarsi liberatoria. Quindi con una speranza?

Sì, il personaggio è un inetto infelice, talvolta depresso, paralizzato dalla paura, sempre in lotta contro il mondo, ma dotato di immaginazione. La speranza del romanzo è nella scrittura, nell’arte, nel romanzo, che lo riscatta da qualunque fallimento, da qualunque ipocrisia sociale e familiare, come dice egli stesso in qualche momento.

Due parole sulla lingua: leggendo il libro ci rendiamo conto che al suo interno troviamo vari generi, era una necessità dovuta alla storia che stavi raccontando?

Sì questo libro più di altri che ho scritto attraversa diverse forme narrative, tutte praticate dallo scrittore Nicolò Consorti: l’autobiografia, la forma reportage, il romanzo di formazione che viene su a poco a poco rievocando con il terapista l’infanzia, l’adolescenza e le altre età della vita, il romanzo aziendale nella banca, il romanzo nel romanzo, il romanzo psicanalitico, visto che racconta di sedute di analisi con uno psicologo freudiano… Insomma, si cerca di tenere insieme tutti questi generi narrativi in un’unica forma romanzesca coerente e dinamica.

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Paolo Restuccia

Scrittore e regista. Cura la regia della trasmissione Il Ruggito del Coniglio su Rai Radio2. Ha pubblicato i romanzi La strategia del tango (Gaffi), Io sono Kurt (Fazi), Il colore del tuo sangue (Arkadia) e Il sorriso di chi ha vinto (Arkadia). Ha insegnato nel corso di Scrittura Generale dell’università La Sapienza Università di Roma e insegna Scrittura e Radio all’Università Pontificia Salesiana. È stato co-fondatore e direttore della rivista Omero. Ha tradotto i manuali Story e Dialoghi di Robert McKee e Guida di Snoopy alla vita dello scrittore di C. Barnaby, M. Schulz.

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