Immersi in una bolla di protezione e isolamento i protagonisti di questi racconti raccontano storie che potrebbero essere le nostre, storie di piccole disperazioni e di paure per le quali non esistono abbastanza combinazioni di parole. Scritto e pensato prima della pandemia di Covid-19, le storie sono ambientate in un futuro anteriore o un passato prossimo, un tempo ricamato sulle nostre ansie, sui nostri legami che rischiano di finire polverizzati.
Il virus costringe alla quarantena tutti coloro che sono entrati in contatto con i malati, 21 giorni di inquietanti attese e di riflessioni ansiogene sull’amore incompreso, i corpi bardati e costretti in pesanti tute atermiche, il gesto di sfilarsela è già un richiamo erotico, una disobbedienza pericolosa, come quella del medico che cede alle suppliche e al desiderio febbricitante della sua paziente.
I loro nomi sono nomi normali, quelli che abbiamo noi, i nostri fratelli, i nostri genitori, Alberto, Anna, Serena, Riccardo, Sara…nomi destinati a sommarsi alle storie minuscole dei sopravvissuti e degli sconfitti, che perdono l’amore senza averne più notizie, imprigionati nella propria casa che diventa una metafora inquietante dei nostri incubi.
“Anna ha gli occhi chiusi. Dorme spossata dalla febbre emorragica. La osservo impietrito, ansimo, appanno il vetro con il fiato grosso. Decido di rimanere lì, immobile. Aspetto il risveglio per farle una sorpresa. Voglio che mi trovino così. A fissare dal vetro la donna che amo.”
Non esiste niente di più potente del desiderio dell’amore, e proprio questo desiderio, travolgente, folle, può portarci oltre i confini scanditi dalle convenzioni sociali, e dalla sicurezza della separazione imposta dall’autorità, e farci morire. Ma anche vivere e brillare per un attimo, attaccati al vetro dell’ospedale dove sta trascorrendo il suo periodo di malattia la moglie amata con disperazione, oltre l’umana prudenza. E in fondo, un minuto intero di beatitudine non è abbastanza, anche per l’intera vita di un uomo, come continua a ripetere Fedor Mihailovic Dostoevski, alla fine delle Notti Bianche, uno dei primi romanzi in cui la realtà sperata si confonde con la realtà tangibile.
Questi racconti sono pieni di incipit fulminanti, che letti di seguito, sono materiale a cui la mente continua a tornare. Il vento del sud che riconosci dall’odore di polvere e sabbia che ti arriva in faccia prima ancora di sentirne addosso la brezza, e che infiamma occhi e corpi provati dalla povertà, un vento che ammalia un dottore che finisce con il voler restare a tutti i costi, perché solo nel sollevare i corpi altrui dalla sofferenza trova un sollievo al suo dolore, alla sua ansia di non essere abbastanza meritevole di vita.
I topi scappano se fai rumore, un rumore molesto, infestante, che riproduce il delirio di una ragazza contagiata dal virus, e che vive in un buco nero di aspettative e menzogne, e che sogna di essere toccata dalle mani del dottore che la sta curando.
Non c’è una vera fine in questi racconti, visto che anche l’ultima frase di ogni storia rimanda a una nuova possibile conclusione, tutta nella mente del lettore, nello spazio magico e incorrotto in cui le cose che leggiamo diventano fibra del nostro sentire.
La cosa più potente che esiste e che spiazza è la scrittura stessa, che, nella dodicesima storia, riannoda i fili con il senso ultimo delle nostre vite: la scrittura che è un mistero, e che va preservata per salvarci l’anima dalla paura dell’oblio e dell’inazione. Un inno all’amore per le parole: “chi mi osserverà le pupille, da morto, potrà leggerci quello che ho scritto, e pure nella nuova dimensione la scrittura continuerà a salvare me e tutti coloro che ci crederanno”.