UNA SCRITTURA INDELEBILE

Ma neanche Ketty parlava più, perché a lei erano finite le pile.

Io sono Smeralda, tua madre. E lo sarò per sempre, perciò ascoltami: voglio che le mie parole restino impresse nella tua carne, come un marchio, una scrittura indelebile. Perché presto ti porteranno via da me; possono farlo, qui funziona così. Ma sono io, soltanto io quella che ha fatto sì che una violenza, nel mio grembo, diventasse vita. Ed è per questo che ti ho chiamata così: Vita, anche se non è un nome che hanno in molti.

Giusy, mia madre, mi ha chiamato Smeralda per i miei occhi: pietre verdi durissime che le ricordavano quelli di mio padre, mai conosciuto. E sono gli stessi tuoi occhi, con quelle scaglie dorate che li fanno risplendere come due piccoli Soli.

Splendono anche di notte, quando nel sonno mi cerchi, anche se ho cominciato ad allontanarti.

Devo farlo: per te, ma soprattutto per me, perché quando ti vedrò andare via dovrò convincermi che ce la farò lo stesso.

Passerà del tempo prima che io possa rivederti. Quanto? Non lo so, aspetto la sentenza, forse fra i giudici ci sarà una donna o due, e quelle almeno sapranno di cosa si parla…

Alle volte soffio nelle tue orecchie parole sperando che tu riesca a trattenerle come fanno le conchiglie col mare, che puoi pure portarle in montagna, o nel deserto, e quelle continuano a tenerselo dentro. Suoni più che parole, sillabe, fruscii di marea, “mi” “mhhhh “ohhh” “mia” “shhhhh”.

Ti apro le mani chiuse a pugno e su quella morbidezza ancora non arresa, ci accosto le mie, dure, annodate, crocefisse: lascio che le tue dita stringano le mie e le trattengano per il tempo necessario. Oppure che si posino, ferme, sul mio viso: le piccole palme aperte come le foglie in primavera, con le nervature azzurrate e una promessa di fiori; ferme, affinché ci restino impresse la mia fronte, la mia bocca: le mani, più degli occhi devono sapermi, ché quelli alle volte dimenticano.

Devi sapermi in ogni senso, l’odore nero dei capelli, il sale delle lacrime asciugate sulle braccia, della saliva quando con i denti spezzo il pane o quando la passo sulle piccole ferite perché cadi giocando in quello che chiamano nido. Nido. Qualcuno ti insegnerà a volare? Volare e poi scoprirti a tiro del più feroce dei predatori? Per conto mio conosco solo il passo, e l’inutile corsa contro una porta che sbatte. È un attimo e ti ritrovi a strisciare. Ascolta, te lo racconterò ogni giorno fino al momento in cui ti porteranno via. Ma appena esco. Perché esco – te lo prometto – in un modo o nell’altro ci troveremo: qui non ci resto molto. Capiranno, quando conosceranno tutta la mia storia sapranno che ho sempre dovuto difendermi e non avevo scelta.

La prima volta fu mia madre. Ho dovuto farlo, perché non soffriva per me, non le importava del mio dolore, l’ho uccisa perché mi vendeva. Non importa se non riesci a capirmi. Lascia che le mie parole vadano a rifugiarsi da qualche parte, e restino lì, nascoste, fino a quando deciderai che è arrivato il momento che il tuo sangue e quel sussurro nelle orecchie, quel sapore nella bocca, come di fame che non si sazia, quel disegno impresso sulle tue mani, ti chiederanno verità.

Avevo dieci anni la prima volta. Così pochi che li portavo in giro senza fatica su due gambette magre e incerte, facili a cadere lungo il percorso di terra battuta e sassi che portava alla nostra baracca, una delle tante in una delle periferie del mondo.

“Smeralda vieni, c’è un signore che vuole stare un po’ con te, ti ha portato una bambola.”

Io una bambola non l’avevo mai vista e questa, poi, parlava. “Ciao, sono Ketty, la tua bambola. Ciao, sono Ketty, la tua bambola, ciao…”

Poi una sagoma scura ha rubato la luce e poi lo spazio e l’aria e la carne. Un dolore ha lacerato il cielo e ha fatto cadere tutte le stelle, mentre nel petto, tra le orecchie, un’agonia ripeteva: “Ciao, sono Ketty, la tua bambola, ciao sono Ketty, e Ketty perde sangue… Ketty non piange, ciao sono Ketty, una bambola rotta.”

Invece piange Giusy. Passi. Una porta sbatte. Poi Ketty ha smesso di parlare, come me. Non ho parlato per molto tempo, ché le parole non mi volevano uscire. Anche se mettevo le mani in bocca, stavano dentro e non uscivano. Allora Giusy si arrabbiava: “di’ qualcosa Smeralda, parla!”. Ma neanche Ketty parlava più, perché a lei erano finite le pile.

Come Ketty, ho smesso di mangiare. Mia madre ha giurato che non sarebbe accaduto mai più, fino a quando i soldi sono finiti.

Così gli uomini sono tornati: gentili stavolta, coi confetti, piccoli giocattoli, peluche.

Con i soldi abbiamo aggiustato il tetto, ché quando pioveva forte, le bacinelle si riempivano in fretta e passavamo il tempo a svuotarle, anche di notte. Poi, Giusy ha iniziato a comprare, comprare qualsiasi cosa: la baracca si è riempita che sembrava una bancarella, e poi vestiti, scarpe, trucchi, gioielli, bigiotteria, sembrava ormai una di quelle che stanno in televisione, solo che i soldi non le bastavano mai.

Un giorno è arrivato un uomo. Era diverso dagli altri: vestito elegante, occhiali scuri, il bavero del cappotto rialzato a nascondere la faccia. È sceso da una macchina bellissima, tutta nera e lucida, e ha offerto a Giusy un mucchio di soldi: troppi persino per lei. Io pensavo che erano così tanti perché quello la voleva, ché col suo vestito con le rose sembrava una principessa. E invece, come gli altri, voleva una bambina. Voleva me. Sono finita in una clinica, ma non ricordo altro che i neon e il sangue. Quando è tornato, l’ultima volta, Giusy non era nemmeno in casa. Passava, ormai, molto tempo con le amiche, o alle slot. Quel giorno ho gridato con tutto il fiato che avevo e non è servito.

Quando è rientrata, s’è seduta davanti al televisore. Le ho detto che stavo male, ma lei nulla: se ne stava là con un vassoio sulle gambe, un hamburger, patate fritte, l’alluminio della Coca Cola e il pacchetto di Marlboro. Le ho detto che stavo male: “Shhht!”. Giuro che gliel’ho ripetuto! Lei ha alzato il volume. Sullo schermo un uomo e una donna stavano litigando: ci passava le ore con quelle stronzate.

Dentro di me un rumore muto e bianco. Ho afferrato una bottiglia di spumante e gliela ho spaccata in testa con tutta la rabbia che avevo. Ho visto la spuma e il sangue esplodere e mescolarsi e inondare quel vestito con le rose cadute con lei, sparpagliate a terra.

Sono rimasta un giorno intero a guardarla. Ketty aveva ripreso a parlare grazie alle pile nuove “Ciao sono Ketty la tua bambola, Ciao”

La sera successiva sono andata dalla vicina di baracca e ho detto che Ketty aveva ucciso Giusy.

Dai quattordici ai diciotto anni sono stata in istituto. Stavo bene, stavo imparando a fare la sarta; sì, insomma, un lavoro per quando sarei uscita. Poco dopo il mio diciottesimo compleanno, ormai prossima alla dimissione, Mihaj l’uomo che lavorava in giardino, mi ha chiamato nel deposito degli attrezzi, voleva che l’aiutassi a fare non ricordo cosa. Mihaj mi stava simpatico, qualche volta mi ero fermata a parlare con lui, mi raccontava della sua famiglia rimasta in Romania, cose così, forse si sentiva solo. Insomma, mi fidavo, ma appena sono entrata mi ha afferrata prendendomi alle spalle. Un braccio intorno al collo, una morsa: “Non urlare o stringo!”

Neanche ci ho provato a difendermi, è durato poco, un poco interminabile. Ho finto piacere per farlo venire prima. Cosa volevi mi dicesse: “l’avevo capito che ci stavi!”, no? Così mi ha liberato i polsi e quando si è chinato per raccogliersi i pantaloni, ho afferrato il primo attrezzo che ho trovato e ho colpito, finché non ho visto uscire dalla testa una poltiglia grigia insieme al sangue. Mi sono seduta a terra e, mentre lo guardavo ho aspettato che arrivasse la notte per scappare, ma ci hanno trovato prima.

E allora? Allora imparalo: la vita non è quella cosa precisa che dicono.

Se non sei di nessuno, allora sei di tutti, e tutti pensano di poterti fare tutto. E quando uccidi due volte sei una assassina.

Pure, quando ti ho sentito crescere dentro di me, ho pensato che finalmente, per la prima volta, eri qualcosa di mio, e ti ho voluta. Potevo abortire e non l’ho fatto, e anche se per tutti sono un’assassina, tu invece ti porterai dentro, da qualche parte, piccole tracce di me, indizi, una scrittura indelebile, e perciò verrai a cercarmi.

Il 20 febbraio del 2010 una giuria composta da cinque uomini, ha emesso una sentenza di condanna per “delitto d’impeto” con nessun beneficio di legge. 21 anni di reclusione.

Il giorno 25 febbraio del 2010 Smeralda, al suo rientro in cella, scopre che Vita è stata portata via.

La mattina del 26 febbraio 2010, l’agente penitenziaria Rosa Mirante entra nella cella di Smeralda: due occhi verdi durissimi la fissano, immobili.

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Joanna Di Michele

Nata a Roma, ha frequentato l'Accademia nazionale di danza. Laureata in medicina e chirurgia, con specializzazione in geriatria e psicoterapia cognitivo-comportamentale. Dal 1977 al 1982 ha gestito il Johan Sebastian Bar, storico locale della capitale, dove hanno suonato tutti i nomi più importanti della musica italiana, e molti della scena internazionale. Dopo la laurea ha iniziato a viaggiare per il mondo dividendosi fra Roma, Locarno e il Messico, dove aveva avuto in concessione dal governo un'isola nel Mar di Cortes dove insieme al suo compagno portava avanti un progetto pilota di turismo sostenibile. Durante tutti questi anni ha sempre collaborato con la sorella cantautrice, firmando molti testi delle sue canzoni. Tornata in Italia, ha lavorato come direttore sanitario in una struttura per pazienti psichiatrici e con deficit intellettivi. Attualmente vive in campagna, dove si occupa di agricoltura biologica e gestisce un rifugio per animali sottratti all’abbandono.

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