Il punto di vista necessario, così, cari amici, intitolerei questo Sconsiglio che vi propongo oggi. E cioè come scegliere il punto di vista giusto per raccontare la nostra storia; in altre parole, quale punto di vista scegliamo per il nostro eroe e per tutti gli altri personaggi che inventeremo?
La scelta del punto di vista determina a quale distanza il narratore si pone nei confronti del personaggio.
Pensiamo al punto di vista come a una ipotetica macchina da presa – che abbiamo a disposizione per filmare la storia che vogliamo raccontare. Noi siamo il regista e l’operatore, e decidiamo dove posizionare la cinepresa per riprendere ogni scena nella quale si troverà il nostro eroe e gli altri personaggi.
Questa scelta è fondamentale e molto delicata, perché proprio da cosa deciderai di inquadrare e come deciderai di inquadrarlo, dipenderà molto della riuscita della storia e della soddisfazione del lettore.
Se il punto di vista che hai scelto per raccontare la tua storia non è chiaro e coerente, il lettore sarà disorientato. E un lettore disorientato è un lettore che può decidere di abbandonarti e forse già ci sta pensando.
Se metti la macchina da presa negli occhi del personaggio, avrai una soggettiva, una focalizzazione interna, e avrai il massimo grado di focalizzazione, indipendentemente se la narrazione è in prima o in terza persona.
La “focalizzazione zero” indica un narratore onnisciente, come nei Promessi sposi di Manzoni, come in tanti romanzi ottocenteschi, ma è una tecnica che oggi non si usa quasi più, almeno non in modo esclusivo.
Oggi si tende a entrare nella testa e nel cuore dei personaggi, si cerca l’identificazione massima fra lo scrittore e il suo personaggio. Che tuttavia può comportare dei rischi come sappiamo, soprattutto se dobbiamo entrare nei panni di un personaggio molto lontano da noi, antropologicamente, socialmente, che ci costringe a fare una “regressione culturale” spogliandoci della nostra cultura e del nostro background, come faceva Verga coi suoi pescatori e contadini, o Pasolini coi suoi ragazzi di vita, utilizzando anche espressioni dialettali, gergali che fanno parte del loro linguaggio.
Però nessuno ci vieta di avere diversi punti di vista in un romanzo. Esempio personale. Nel mio romanzo L’erba cattiva, che raccontava di un parricidio in una famiglia proletaria che avviene in un paesino vicino a Roma – un padre alcolista tirannico disoccupato, manesco, una madre umile, dimessa, vessata dal marito, e tre figli maschi di età diverse e diversi caratteri, – in quella storia di violenza familiare, feci una scelta rischiosa: decisi di dividere il punto di vista fra tutti i personaggi della famiglia. Soprattutto fra i tre figli maschi, per mostrare al lettore come in ciascuno di loro vi fossero ragioni di risentimento e di odio verso il padre, e che ciascuno di loro potesse alla fine compiere quel gesto folle del parricidio, quel gesto che compirà soltanto uno di loro, il più giovane, alla fine della storia, con una pala da giardiniere scagliata sul capo del vecchio padre dopo l’ennesima litigata. Insomma una ragione per quella scelta per me insolita c’era. Non fu per nulla facile, ricordo, governare l’intreccio, e alla fine uno dei punti di vista, quello dell’omicida, prevaleva sugli altri. Chissà se fu una scelta felice, o se invece non sarebbe stata meglio, quella storia nera, con un solo punto di vista, con un solo, vero, protagonista, Tonino, il più giovane? Chi può dirlo?
Per cui usiamo il punto di vista doppio, o triplo, o multiplo, solo se ci pare davvero necessario al nostro intreccio, alla nostra story il cambio di prospettiva.
Alla prossima… anzi no, dimenticavo l’esercizio: scrivete un raccontino familiare, un pranzo domenicale di una famiglia-tipo composta da quattro persone, un’occasione conviviale animata da una qualche discussione, da una qualche polemica, che sfocia in una litigata magari… Provate a raccontarla prima dagli occhi del padre, poi da quello della madre. Buon lavoro.