Il circolo della fame

Dovrebbe renderci fieri, quella gru cenerina con quelle gambe sottili e lunghe, alzata da terra, perfetta, quadrata, un orgoglio per la città di cemento.

Ogni città ha il suo circolo della fame. A Momo, il circolo è proprio in centro, sai? Lo hanno piazzato fra gli altri palazzi. Come monito? Ma che! Dovrebbe renderci fieri, quella gru cenerina con quelle gambe sottili e lunghe, alzata da terra, perfetta, quadrata, un orgoglio per la città di cemento.

Nevica a Momo e non so se tu abbia mai fatto caso, ma con la neve la sofferenza si amplifica. Si ha più fame. Il bianco pare che dia risalto al grigio. Che poi i colori non esistono. Esistono soltanto il bianco e il nero.

Noi, del circolo, abbiamo fame. Aspettiamo in fila, non osiamo parlare. Non si sente niente. Le nostre spalle ossute si piegano ricurve, le narici fremono, si alzano all’insù, ma niente. L’aria odora soltanto di neve. All’improvviso la porta della cucina si apre e la cuoca obesa esce con un mestolo e un calderone di ghisa. Gli inservienti portano il piccolo tavolo.

Un leggero mormorio. Alziamo le teste. Gli occhi ardenti s’illuminano. Mi sento spinto da dietro. Qualcun altro mi spinge dai fianchi. Io oppongo resistenza. Da destra una ragazza con i capelli lunghi e occhi spenti non ce la fa più e cade. Gli altri le camminano sopra. Le vanno addosso, per prendere il suo posto. Gli inservienti escono: sono in cinque. Sono muniti di bastoni. Ci picchiano. Lo sapevo. Lo penso sempre, non ha senso spingersi verso la porta della cucina.

Gli inservienti prendono la ragazza e la trascinano come si trascina un sacco di canapa. La cuoca dà il via. C’è qualcuno che spinge ancora. Un ragazzino vicino a me urla. Gli hanno calpestato i piedi. Lo prendo per mano e gli dico di non urlare. Si morde le labbra rosse fino a fare uscire le lacrime dagli occhi. Il naso gli cola ma avanziamo. Comincio a sentire gli odori. Nel calderone una zuppa calda, dell’acqua bollente con dei pezzi di carota flottante.

Sono arrivato terzo in fila. Sento gli odori. Una volta odiavo la zuppa, sai? Detestavo il suo odore di grasso, odiavo la puzza che rimaneva dopo averla cucinata, la cipolla. Sì, non potevo sopportare la cipolla. Mi irritava. Ti ricordi? Tu odiavi la puzza del caffè. Così la chiamavi, puzza. Mi spiegavi che per te era insopportabile. A te non dava fastidio la cipolla, non ti dispiacevano i cavoli bolliti. Per te la zuppa di gamberi, quel miasma che rimaneva in cucina, tutto quello era un profumo.

I gamberi sono morti. La neve uccide tutto. Anche i colori, sai? Soprattutto i colori. Erano gialli i gamberi? E il caffè, com’era? Era rosso? Non ridere, non mi ricordo.

La cuoca mi tende la ciotola, la gamella. Così, come si dà da mangiare a un cane. Mi porge un pezzo di pane secco. Mi metto per terra. Mangio piano. Divido il pane in due. Una parte la faccio a pezzi nella zuppa. Un’altra la tengo in mano. Prendo il cucchiaio e prima annuso, poi, lentamente, più lentamente che posso, mangio. Porto il cucchiaio alla bocca e lo verso di colpo. Il liquido scende e mi sforzo di assaporarlo. Vorrei che non finisse mai.

Non ci crederai a quello che mi è successo ieri. Fuori aveva smesso di nevicare e faceva freddo. Sono riuscito a buttarmi dalla finestra, dormo a pianoterra, Anne Marie, dev’essere stato quell’odore del caffè a spingermi a farlo. Mi ricorda quello che facevi tu, un odore che mi riempie la gola. È rotondo, è pieno, è pungente. È colorato.

Mi sono trascinato sulle ginocchia: c’era un inserviente a sorvegliare dal tetto. Non volevo essere visto. I pali di ferro del tetto guardavano verso il cielo. C’erano le nuvole. Le ginocchia mi sanguinavano.

Devo nascondermi, mi sono detto. La neve si era sciolta; piccole pozzanghere di un grigio fangoso si erano formate nel cortile, come gli occhi di un pesce pescato da poco, lucidi, vitrei. Il sorvegliante si era girato di spalle, non mi può vedere, pensai.

Il fianco destro mi fa male. Lo sai da quando? Da quando mi sono bruciato mentre cucinavo il pane. Ti ricordi il colore del pane appena sfornato? Tu mi dicevi che non ti piaceva il suo gusto, a me piaceva il suo colore. Colore caldo.

A Momo abbiamo il circolo nel bel mezzo della città, circondato dai palazzi dove qualcuno mi può vedere. Soprattutto perché adesso ha smesso di piovere e non posso più nascondermi dietro le gocce della pioggia. Guardo verso il cielo. Forse nevicherà. Non sento più l’odore di caffè. Meglio tornare. Un corvo sta scendendo verso di me. È magro e affamato. Mi stacca un braccio. Mentre vola basso, in linea retta, lascia delle scie nella neve, piccole gocce rosse, dei bottoni rotondi, intensi. Ti ricordi le ciliegie? Io sì.

Anne Marie, stamattina avevo di nuovo due braccia. Penserai che sia impazzito, ma ho solo fame. Avrò sognato il corvo, avrò sognato la neve, ma non il circolo. E nemmeno l’odore di caffè. O puzza, come la chiamavi tu.

Oggi a Momo nevica di nuovo: dei grossi fiocchi di neve, grossi quanto un uovo di quaglia. Ho fame. Mi metto in fila. Calpesto il piede sinistro del ragazzo. Lui non urla più, deve avere la gola troppo secca. Sento i suoi rantoli. La ragazza è morta. Fuori nevica. Ho fame e sono il primo in fila. Guardo quella grassona. Le sue gambe sono storte e corte, la pancia le fa le onde, le mani sono piene di unto. Immagino le mie mani intorno al suo collo. Vorrei mangiarmela. Mi tende la ciotola. Alzo il mento per guardare i suoi occhi, piccoli e infossati, e un odore di ossa, di ossa di pollo, di ossa calde, stringo le narici e inspiro profondamente, cerco di catturare dentro il gusto. E a quel punto che ho messo in atto la mia vendetta, Anne Marie, è stato quello il click. Dalla cucina, dietro alla grassona, veniva un odore, quell’odore. Quello che mi aveva fatto uscire nel fango, che ogni giorno mi faceva uscire. Il caffè appena fatto, il rumore, quella schiuma marrone e calda. Mi sono ricordato, nel sonno, stanotte il suo colore.

È Natale. La neve, con la sua purezza, si è stesa su tutto come una pennellata di un pittore che però, a tratti, si è scordato di imbiancare anche il nostro circolo. I sorveglianti ci hanno fatto uscire, incolonnati, a gruppi di due, con le zappe. Le braccia mi fanno male. Stiamo liberando la strada dalla neve. Aspetto l’ora di pranzo. Esausto, mi metto in fila per ultimo. Lascio passare il ragazzo. Mi spinge anche lui per arrivare prima. Lo lascio passare. Lascio passare il fantasma della ragazza. Aspetto l’uscita della cuoca obesa. Oggi ci dà una mela a ciascuno, in più della zuppa, perché è Natale. Non fa freddo fuori. Quando nevica come oggi, con i grossi fiocchi traslucidi, grandi come le uova di quaglia, non può fare freddo. I sorveglianti non sembrano così arrabbiati oggi. Scherzano e ridono fra di loro. Ci fanno avanzare con dolcezza. È Natale, è il giorno del Signore, è il giorno dell’abbondanza. Ci fanno avanzare con dolcezza. Io aspetto. Lascio passare il ragazzo. Lascio passare i fantasmi. Aspetto.

Oggi gli astri compiono una rivoluzione. Non ho fame, non ho più fame. Oggi è il giorno del Signore. Arriva il mio turno, e io stavo per essere il penultimo. Ho lasciato passare il vecchio con le stampelle. Stava andando velocemente, il vecchio con le stampelle. I tre sorveglianti erano entrati in cucina: dalla piccola porta aperta si sentivano i rumori dei bicchieri. Stavano brindando. La grassona stava andando di fretta. Voleva andare pure lei a brindare. Siamo nel 24 dicembre del 1989, e so di non rivederti mai più, mia adorata moglie.

Ogni anno, a Natale, prima, ricordi che sacrificavamo il maiale? Ricordi la carne arrostita che preparavamo subito dopo il suo sacrificio? La neve colorata di rosso, quello sfrigolio? La pancetta? Il vino rosso sangue che scorreva? Ricordi quegli odori? I regali nascosti sotto l’albero, la messa della chiesa? Ricordi, Anne Marie, ricordi la felicità? È l’ultima cosa che voglio ricordarmi oggi, nel circolo della fame. Rammento l’ultimo Natale insieme, quando il caffè non c’era più, quando la cucina del nostro paese era così all’avanguardia che inventavamo le ricette senza gli ingredienti. Quel Natale ci siamo guardati negli occhi e tu hai messo sul fuoco la caffettiera, quel vecchio bollitore in ceramica con il bordo sbeccato dopo vent’anni di matrimonio. Hai fatto bollire l’acqua e mi hai preparato il caffè. Ma i chicchi di caffè non c’erano, ma qui, nel circolo della fame la grassona ce li ha. Mi facevi da mesi il caffè di ceci. Non mi piaceva. Ma poi abbiamo fatto l’amore. La mattina dopo, sono venuti a prendermi.

Gli astri si sono messi in moto da tempo ormai. Hanno compiuto la loro rivoluzione. È Natale, Anne Marie, e mangio una mela rossa, la mangio come se fosse una banana. Sono steso per terra e per la prima volta non ho fame. Gli altri hanno finito e sono l’ultimo a mangiare per terra, come un cane. Non ho più fame. Sono felice, Anne, perché fuori nevica. Un pittore distratto si è scordato di imbiancare il nostro circolo.

Finisco di mangiare ed entro in cucina. La grassona sta cucinando il caffè. I vapori, che odorano di vento, di pioggia calda di primavera, di pioggia calda d’estate, arrivano alle mie narici, e per un attimo mi sento paralizzato. La grassona è di spalle, i sorveglianti bevono le bollicine che fanno click clack. Non ho più voglia di bere il caffè, lei si gira verso di me, è il giorno di Natale, e fuori nevica.

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Ruxandra Dragoescu

Ruxandra Dragoescu è nata in Romania. Si è laureata in scienze politiche a Bucarest e in letterature comparate a Napoli, dove vive da quasi venti anni. Ha lavorato come traduttrice e come interprete e ha fatto la giornalista per un giornale della diaspora romena. Ha partecipato a vari concorsi letterari, è stata pubblicata insieme ad altri. Alcuni esempi: in lingua francese, Premio Universitario di Narrativa in lingua francese dell’Università di Napoli L’Orientale, Napoli racconta, 2014, in lingua romena: Carti, Filme, Muzici si altre distractii in comunism, Ed. Polirom, 2014, Revista de povestiri, 2013, Nr. 13, Povestile de la Bojdeuca, Editura Muzeelor Literare, 2014,  in italiano:  Lingua Madre 2012, Racconti di donne straniere in Italia, Edizioni Seb 27, Frammenti di Filosofia contemporanea vol. V, Lumina Mentis editore, 2015, Ritorno a casa, Ciesse Edizioni, 2013. Dice del suo rapporto con la scrittura: "Scrivo per mia nonna. Faceva la giornalista per il giornale più importante del paese e scriveva sempre e ovunque, nei diari, sui fogli, sul frigorifero. Lei diceva che per me scrivere era predestinato, e dava come prova il tradizionale 'taglio del ciuffo', la festa dei miei 4 anni. Si tratta di una festa durante la quale al bambino si taglia il suo primo ciuffo e gli si mette davanti un vassoio d’argento (o di plastica, piuttosto, durante il periodo comunista), pieno di oggetti luccicanti e scintillanti, di meraviglie e di tesori che lui non ha mai visto o toccato prima: macchinine, giocattoli, oro, soldi, profumi, ecc. e ogni oggetto simboleggia qualcosa. Cosa mi sarà passato per la testa quando mi sono sentita attratta da una penna stilografica nera e semplice, scegliendola per prima?

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