Scrittura carceraria

Ci può essere buio a mezzogiorno?

Oggi mi va di parlarvi di scrittura carceraria e di darvi un consiglio di lettura. Qual è il libro/film carcerario che avete amato di più? Intanto che ci pensate vi dico il mio. Il libro di carcere e prigionia che mi è rimasto più impresso lo ha scritto uno scrittore non molto conosciuto dal grande pubblico, chissà se voi scrittori in erba lo conoscete? Si chiama Arthur Koestler, uno scrittore un po’ austriaco, un po’ ungherese, ebreo, comunista, che conobbe le prigioni tedesche durante il nazismo, ma poi raccontò quelle sovietiche sotto Stalin. Il libro si chiama Buio a mezzogiorno, è uno dei più sconvolgenti atti d’accusa contro Stalin e contro qualunque dittatura – e racconta i vari passaggi di un processo staliniano in un carcere staliniano durante le cosiddette purghe staliniane per atti considerati controrivoluzionari, attraverso estenuanti, durissimi interrogatori (il libro è diviso in quattro Interrogatori, Primo interrogatorio, Secondo interrogatorio ecc.),  con sofisticate forme di tortura, come la famigerata tortura del sonno, e il recluso, il condannato, a poco a poco, con sgomento, capisce, e il lettore con lui, che i suoi accusatori non vogliono giungere alla verità, ma soltanto a una “ammissione di colpevolezza” che ne sancirà/causerà l’uccisione, la morte, l’eliminazione.

Sentite come comincia:

La porta della cella si chiuse con un colpo secco alle spalle di Rubasciov. Egli restò appoggiato con le spalle alla porta per qualche secondo, e accese una sigaretta. Sul lettuccio alla sua destra c’erano due coperte pulite e il pagliericcio era stato rinnovato di fresco. Il lavandino alla sua sinistra non aveva tappo, ma il foro di scarico funzionava. Il bugliolo accanto era stato appena disinfettato e non puzzava. Le pareti su ambo i lati erano di solidi mattoni, il che avrebbe attutito il suono di qualsiasi colpo contro il muro.

Vedete com’è preciso, lo scrittore, nel descrivere l’ambiente, ma anche semplice, diretto, perché chiunque lo possa intendere, verrebbe da dire. La prosa è secca, asciutta, con pochissimi aggettivi, periodi brevi (ipotassi). Una narrazione concreta, realistica, insomma, senza nessun fronzolo retorico, senza concessioni sentimentali.

Ed ora vediamo la fine – il finale del romanzo, dopo poco più di 200 pagine nella mia edizione:

Una figura informe si chinò sopra di lui, egli sentì l’odore di cuoio del cinturone; ma quali segni portava la figura sulle maniche e sulle mostrine dell’uniforme… e in nome di chi alzava la nera canna della pistola? Un secondo colpo, rovinoso, gli s’abbattè sull’orecchio. Quindi tutto fu tranquillo. C’era ancora il mare col suo mormorio. Un’onda lo sollevò, lentamente. Veniva da immensa distanza e trascorse via placida, alzata di spalle dell’eternità.

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Andrea Carraro

Andrea Carraro, scrittore, nasce a Roma. Se avesse ricevuto un euro ogni volta che sui media hanno usato il termine “il branco” per parlare di uno stupro di gruppo, citando il titolo del suo romanzo più noto, oggi sarebbe ricco. Invece è “solo” uno scrittore tra i più bravi. Romanziere, autore di racconti e di poesie, nasce a Roma nel 1959. Ha pubblicato i romanzi: A denti stretti (Gremese, 1990), Il branco (Theoria, 1994), diventato un film di Marco Risi, L’erba cattiva (Giunti, 1996), La ragione del più forte (Feltrinelli, 1999), Non c’è più tempo (Rizzoli, 2002) (Premio Mondello), Il sorcio (Gaffi, 2007), Come fratelli (Melville, 2013), Sacrificio (Castelvecchi, 2017) e le poesie narrative Questioni private (Marco Saya, 2013). Ha pubblicato anche due raccolte di racconti, confluite nel volume Tutti i racconti (Melville, 2017). I suoi giudizi critici, sensibili ma affilati quando serve, lo rendono un lettore del cui parere fidarsi con tranquillità.

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