È STATO IL CANE

Con che sguardo vuoi essere guardata? Come vuoi essere amata?

Quel diminutivo inglese di donna, Liz, glielo aveva dato lei. Amava i colossal del cinema americano che in quegli anni si giravano nella “Hollywood sul Tevere”, come veniva chiamata Cinecittà nella Roma degli anni ’60.  Aveva visto tre volte il film “Cleopatra”, perché incantata dalla bellezza di Elizabeth Taylor, dalla virilità di  Richard Burton, dal fascino erotico di entrambi che oltrepassava lo schermo, perché erano una coppia anche nella vita e appassionavano i fan di tutto il mondo con la loro capricciosa storia d’amore.

Quando Norberto si presentò a casa a sorpresa con un grosso batuffolo biondo tiziano di cucciolo di cane, una femmina, Valentina lo prese in braccio come si prende un bambino neonato e disse: ”E’ pazzamente bella!  La chiamerò Liz, come Liz Taylor!” Norberto disse: “Era l’unico esemplare di cocker spaniel a taglia piccola presente alla mostra canina di Villa Borghese.  Ha un pedigree d’eccezione.  So che non hai mai posseduto un cane e mi è venuto in mente di regalartelo, pensando quanto ti piacciono le scene di caccia delle stampe inglesi del mio studio, con i cavalieri in giubba rossa, i cavalli di razza e le frotte di cagnolini al seguito.  Il cocker è intelligentissimo ed è un ottimo cane da riporto.  Quando Liz sarà cresciuta la porteremo a caccia e lei sarà felice.  Per ora dovrai accudirla da sola, perché l’apertura del nuovo cantiere mi terrà fuori casa molte ore, almeno finché non arriverà da Milano l’altro collega ingegnere a darmi una mano nella direzione lavori.” 

Valentina non immaginava quanto potesse essere impegnativo un cane, specialmente di quella particolare razza.  Le piaceva quella nuova esperienza che lei, parlando con le amiche, chiamava “paramaterna” e si dedicava con una sorta di fervore alle  incombenze canine, che erano molteplici: passeggiate al parco, spazzolamento del pelo e pettinamento delle lunghe orecchie radenti il suolo, che richiedevano una cura particolare e un controllo giornaliero contro zecche e altri parassiti, shampoo settimanale al beauty dog, regolari visite dal veterinario, senza contare  la manutenzione della cuccia nella grande terrazza dell’appartamento di via Zandonai, dove viveva con Norberto da circa un anno.   Così Valentina, già fuori corso alla facoltà di Scienze Politiche – sebbene avesse sostenuto tutti gli esami con ottimi risultati – dedicava meno tempo alla preparazione della sua tesi di laurea e non riusciva più a frequentare i suoi amici come prima.  In compenso la cagnetta cresceva bene e le era attaccatissima. Una sera, quando Norberto al ritorno a casa abbracciò come sempre Valentina, Liz gli saltò addosso abbaiando furiosa in difesa della sua padrona.  “E’ gelosa!”- disse Norberto e Valentina aggiunse con un sorriso malinconico: “Mi vorrebbe tutta per sé, ma io per lei sto un po’ trascurando me stessa. Sono tre mesi che non vado in palestra.”  Norberto ebbe un lampo negli occhi corvini: “Non te ne rammaricare! – disse – meglio così, gli amici che incontri lì non mi piacciono.  Il vero amico dell’uomo è il cane, Liz è la tua vera amica!  Ormai è ora che la portiamo a caccia.  Per il prossimo fine settimana, Tonino, quel mio amico che ha una casa nella Maremma laziale, ha organizzato una battuta nella zona di Farnese.  Verrai anche tu con la Liz e sarà il suo battesimo di cane da riporto.”   Valentina non amava la caccia, ma, per amore della sua amica a quattro zampe, accettò la proposta. Eppoi Norberto, che la riempiva di premure concrete, se lo meritava.   Era un uomo rude, di poche parole, senza romanticherie – come lui stesso diceva – ma a lei piaceva. Sotto i quaranta, alto, possente, occhi nerissimi e capello liscio latino, carnagione ambrata, anche grazie al lavoro da ingegnere nei cantieri. Aveva mani così grandi e forti che a tavola faceva orgogliosamente a meno dello schiaccianoci.  Valentina, bionda, chiara, efebica, di otto anni più giovane, stava bene con lui, si sentiva sicura.  Sotto l’ala protettiva di quel gigante – che non le aveva mai regalato un fiore – svanivano tutte le sue paure e anche i sensi di colpa che  le derivavano dall’educazione cattolica ricevuta in famiglia, improntata al mito di Maria Goretti e dominata da un padre padrone socialmente potente. Sebbene riluttante alla convivenza che limitava la sua libertà, Valentina aveva finito per accettare quella con Norberto, ma non aveva voluto rinunciare al suo piccolo pied-à- terre di Viale Platone, dove teneva parte della sua ricca biblioteca e tutti quegli effetti personali che avrebbero inutilmente ingombrato l’appartamento di via Zandonai, e dove, comunque, andava solo in occasione delle riunioni di condominio.   

Norberto aprì l’armadietto dei fucili e prese dalla sua collezione un fucilìno calibro 38: “Questo sarà il tuo, – disse – ti insegnerò ad usarlo, così domenica potrai sparare anche tu.” “Va bene!”- disse Valentina senza troppa convinzione.   Ed eccoli in Maremma, in zona di caccia libera, Norberto, Valentina, Tonino, due butteri amici di Tonino e i cani.  La cagnetta Liz, che più di una volta era scappata per rincorrere i gatti di Ponte Milvio, era ora nel suo elemento e dimostrava tutte le qualità della sua razza di cane da caccia. Era già in calore.  Ogni tanto scodinzolava civettando con gli altri cani e ringhiando contro Bach, il cane di Tonino, un setter maculato, di rara eleganza, asciutto e dallo scatto fulmineo. Ma Bach non le badava, era concentrato, all’erta, sensibile al minimo fruscio di rami o di foglie.  “Come mai questo nome?”- chiese Valentina a Tonino – “Ho una passione per l’Aria sulla quarta corda della Suite n.3 di Johann Sebastian Bach!” – risponse lui che nella casa in Maremma aveva una collezione di LP di musica classica.  Valentina si domandava stupita come si potessero conciliare l’amore per la musica divina di Bach con la passione per un’attività che comporta l’uccisione di creature innocenti.  “Stranezze e misteri del cuore umano!”- pensò stringendo il suo fucilino calibro 38.   Camminava sul sentiero di caccia un po’ indietro rispetto agli uomini e si sorprese nel vedere il cane Bach che, anziché seguire Tonino, scodinzolava affettuoso al suo fianco come se la conoscesse da sempre.  “E’ un cane meraviglioso!  Glielo invidio proprio a Tonino. – pensò Valentina – Ma io non potrei mai sacrificarlo in un appartamento di città, dove riesco a malapena a contenere una cagnolina piccola come la Liz, nonostante la nostra immensa terrazza.  Come sarebbe bello possedere tutti e due!”                  

La battuta di caccia aveva portato un bottino generale di sole due quaglie, ma tutti si erano divertiti  moltissimo e andarono a mangiare in allegria al Fagiano Rosso, un ristorante della Maremma, ritrovo di cacciatori.  Valentina era un po’ stanca, ma felice di quell’avventura all’aria aperta in mezzo alla natura e sedette a  tavola  con gli altri.  La Liz sotto il pergolato del locale era in piena zuffa con un gatto.  Accucciato quasi sopra i piedi di Valentina, come se fosse la sua padrona,  stava Bach.  “Me lo fai portare a casa? – chiese lei a Tonino – La mia cagnetta ha bisogno di accoppiarsi e io credo che ne nascerebbero dei meravigliosi cuccioli superintelligenti.” “Affare fatto! – rispose Tonino – Purché la cucciolata sia tutta mia.  Ho amici in Maremma che desiderano cani da riporto!”  “Di bene in meglio!” – disse Valentina, mentre Tonino le dava il guinzaglio del proprio cane. 

Norberto e Valentina tornarono a Roma col sole ancora alto e liberarono subito i cani nella grande terrazza, protetta dai pini e dai salici di Via Zandonai.  Liz e Bach si rincorrevano, ruzzavano e Valentina pensò che prima o poi si sarebbero accoppiati. Andò a togliersi la tenuta da caccia, si rinfrescò e indossò un vestito di popeline rosa antico, prêt-à-porter del sarto Schubert, con gonna ricca e stretto in vita, che valorizzava i suoi piccoli seni e la sua figura di graziosa libellula. Era un pomeriggio di inizio settembre, prima della ripresa della vita frenetica nella Capitale, e dalla porta a vetri aperta della terrazza entravano freschi aromi di conifere e promesse di Ponentino.  Valentina era in salotto, in piedi, di spalle, davanti allo scaffale alla ricerca di un libro. Improvvisamente si sentì afferrare un polpaccio e sentì l’alito caldo e l’ansimare del setter. “Lasciami, Bach! “- gridò al cane.  Scosse fortemente la gamba all’indietro e si liberò dalla stretta.  Bach si accucciò sul tappeto, pareva essersi calmato. Valentina trovò il suo libro, si mise comoda sul divano e si immerse nella lettura della storia che l’autrice, Natalia Ginsburg, fa della propria famiglia di ebrei e della loro difficile vita durante il nazifascismo.  Era totalmente presa dalla narrazione di “Lessico Familiare”, quando una nuova stretta le imprigionò la gamba che teneva accavallata sull’altra. “Smettila, Bach!”- gridò di nuovo.  Ma il cane non mollava la presa. Valentina provò a togliere con le mani dalla sua gamba le zampe di Bach e, chinandosi, incontrò lo sguardo dei suoi occhi che non sembravano più quelli di un animale. Erano occhi umani, color d’oro, immensi, profondi, carichi di un’espressione di dolce sottomissione e insieme di supplica imperiosa. Valentina ne restò turbata. Intanto Bach strofinava il suo sesso contro la gamba di lei ansimando un poco, senza foga. Valentina tentò di nuovo di liberarsi, ma quello sguardo innamorato che l’avvolgeva in una nuvola di pagliuzze d’oro rendeva sempre più deboli i suoi polsi e sempre più implacabile l’abbraccio caldo del cane. Era inerme, senza difese, immobile, come stregata da un incantesimo e si stupiva di sé stessa.  Mio Dio, cosa le succedeva? Possibile che lo sguardo di un animale possedesse la chiave segreta per aprirle la porta di una realtà diversa?  Sì, proprio questo le accadeva, stava entrando in una dimensione sconosciuta, in una dilatazione della coscienza che abbatteva i confini limitati dell’essere umano.  Si sentiva semplicemente una creatura senziente.  Oltre che una donna, si sentiva un mammifero come il setter, un ape, un fiore, un muschio, un’ostrica, una pietra lavica… Sprazzi di lucidità emergevano dalla sua mente razionale a turbarla: “Stai facendo l’amore con un cane! Sei diventata pazza!”, e anche: “Perché non hai mai provato niente di simile con Norberto?”  Ma quelle voci si facevano sempre più fioche. Ormai lei era panica, era tutto, abbracciava l’intero cosmo, era fusa con l’universo, col sacro.  Ora finalmente capiva il significato profondo di quel verso della romanza che canta Renato nel Ballo in Maschera di Verdi, quando lui, che non ha più l’amore di Amelia, rimpiange le dolcezze perdute e le memorie “d’un amplesso che l’essere indìa”.  Ecco, lei nell’amore totale di anima e corpo si sarebbe voluta indiare, innalzarsi e identificarsi col dio, col divino.  E’ così che voleva amare ed essere amata e per indiarsi voleva uno sguardo che fosse l’espressione dell’amore incondizionato. Quell’amore che lei agognava da sempre.  Ma nessuno ancora l’aveva mai guardata così, nessuno mai l’aveva veramente amata!   Ora era precipitata dentro l’oro degli occhi di Bach e nel loro fondo aveva scoperto sé stessa, la sua vera natura, i suoi desideri autentici, le istanze più profonde della sua anima sensibile e per la prima volta non si sentiva divisa, scissa, bensì percepiva tutta la sua potenziale interezza.  Rimase ferma sul divano ancora un po’, con lo sguardo perduto, una statuina di Capodimonte, mentre Bach aveva finito di giocare eroticamente con la sua gamba e le giaceva ai piedi adorante.

“Stasera farò le trofie ai funghi porcìni!”- annunciò allegro Norberto entrando rumorosamente in salotto.  Come molti buongustai era appassionato di cucina e ogni tanto si dilettava in manicaretti che – diceva lui – erano il suo relax antistress.  Valentina si risvegliò da quella specie di trance, rimase ancora immobile guardando davanti a sé: nelle ombre della sera che ormai avvolgevano la terrazza  si  scorgeva, come un bagliore, il giallo intenso di un grosso frutto nella pianta di limoni di fronte alla porta a vetri.  Valentina ne fu sorpresa, perché il vivaista le aveva detto che quella esposizione non era favorevole alla vita della pianta e si stupì di vedere il limone ora per la prima volta.  “Si cena non prima delle nove, le trofie ai funghi porcini voglio cucinarle al top!”- disse Norberto. “Sì, certo!”- rispose lei con la mente altrove.  E lo guardò come si guarda uno sconosciuto.  Poi si alzò dal divano e uscì dal salotto. Vi tornò poco dopo con la borsetta e una piccola valigia. “Dove vai !?”- disse Norberto, con un sorriso incredulo. “Nel mio pensatoio di Viale Platone!”  Rispose lei senza emozione. “Che ti prende?”- disse Norberto tenendola per le spalle. “Ho bisogno di stare un po’ sola.”- disse lei.  Vi fu un silenzio.  Norberto era come inebetito. Non riconosceva nel tono determinato di quella graziosa ragazza vestita di rosa antico la sua Valentina di sempre. Era la prima volta, da quando vivevano insieme, che lei manifestava la volontà di allontanarsi da lui.  Fu invaso da una ridda di sentimenti contrastanti: voglia di rassicurarla, voglia di schiaffeggiarla, tenerezza, gelosia, amore, rabbia… Le sua grandi mani lasciarono le esili spalle di Valentina per aprire febbrilmente il mobiletto del bar e trarne una bottiglia di whisky da cui bevve direttamente lunghe sorsate.  Poi sollevò il possente torace in un respiro profondo e disse: “Parliamo!”  “Non ora, sono stanca!”- rispose lei e si avviò verso la porta di casa. “Aspetta! – gridò lui. Ma Valentina aveva già disceso la prima rampa di scale.  Norberto si bloccò, quasi a voler realizzare se fosse vero quello che stava accadendo o si trovasse nel nucleo profondo di un brutto sogno.  Per la prima volta nella sua vita, lui così deciso e preciso nel dare istruzioni, disposizioni e ordini, così sicuro di sé, del suo valore, delle sue capacità professionali e del suo ascendente di leader, non sapeva cosa fare.  Era troppo orgoglioso per correre dietro a Valentina e supplicarla di non lasciarlo, né considerava possibile e producente fermarla, riportandola a casa come un pacco postale.  Ma vederla andar via gli stava lacerando l’anima.  Era invaso di colpo dall’angoscia che spesso accompagna il senso di perdita di un legame. In quella sera settembrina di una Roma ancora vacanziera, tra resinosi odori di cipressi e di pini secolari che arrivava dal giardino, insieme al sommesso frinire di un grillo tardivo, Norberto, che non aveva mai sofferto per una donna, comprese per la prima volta il significato di “pena d’amore”.  Corse al bagno, si guardò allo specchio e disse a se stesso: “Sei un un gigante coi piedi d’argilla!”  Si buttò dell’acqua fresca in faccia e tornò in salotto. Vide Bach che dormiva profondamente vicino al divano. Prese il telefono, ma anch’esso gli era nemico: la rotella dei numeri gli scappava di mano e i suoi buchi parevano essersi rimpiccioliti per non farvi entrare le dita.  Finalmente riuscì a formare un numero: “Pronto Tonino?”- disse con voce più stentòrea di sempre. “Ti riporto il cane… Sì sì, tutto a posto!  Ah, sicuramente! – esclamò sforzandosi di apparire allegro –  Sarà una cucciolata da mostra canina!  Verrà contesa dai butteri più gagliardi di tutta la Maremma!!  Bene! Arrivo!”  Riagganciò il ricevitore, prese il giubbetto di pelle e il guinzaglio di Bach che erano appesi nell’ingresso e uscì. 

Passarono lunghi giorni.  Norberto si era buttato nel lavoro in modo indefesso. Rimaneva al cantiere a volte fino a notte, chiuso nel box adibito a ufficio tecnico, dove aveva portato un mangianastri.  Dopo il tramonto il cantiere chiudeva i battenti e rimaneva deserto, ma lui non tornava subito a casa.  Si tratteneva ad ascoltare a tutto volume una cassetta musicale che gli aveva prestato Tonino, dove era incisa la Madama Butterfly di Puccini.  Aspettava il ritorno di Valentina, come Butterfly aspetta Pinkerton e sempre con quella spina che gli bucava l’anima.              Dal finestrino del box  si vedevano le tubature “Innocenti” di alcune impalcature, ma a lui, mentre ascoltava Puccini, sembravano alberelli di una piccola foresta di nocciòli del Viterbese, vicino alle zone dove da giovanissimo aveva provato le prime forti emozioni legate all’attività venatoria, partecipando alle “cacciarelle” al cinghiale.  Ascoltava e riascoltava in “Un bel dì vedremo” quel passaggio sublime, “Un po’ per celia e un po’ per non morire”, con una Callas da brivido.  Ed era il suo balsamo.  Valentina non si era fatta viva.  La riconquistata libertà in una nuova consapevolezza di sé stessa la faceva sentire affrancata dal bisogno di protezione e dall’urgenza di gratificazione di un amore totale e assoluto, forse utopico, a supporto di un’identità debole.  “Ho imparato a gestirmi da sola. Sono diventata forte!” –  diceva a sé stessa con fierezza, ma non le mancavano momenti di rimpianto per quell’uomo schietto e rude dal quale era fuggita. Frequentando altri ambienti e altre compagnie aveva potuto fare dei raffronti da cui Norberto usciva vincente.  “Acqua passata! – ripeteva a sé stessa Valentina – La vita procede e non si attarda mai sul passato!” – pensava, ricordando le parole del poeta indiano Kalil Gibran.   

Un giorno era tornata dalla palestra di Viale Platone e si preparava per una serata con gli amici del Club Tevere.  Sentì suonare al piccolo cancello del suo pied-à-terre.  Era d’accordo con un’amica che sarebbe venuta a prenderla per andare insieme al Club. “Sei in anticipo, mia cara.”- disse rapida al citofono con una scarpa in mano e, riagganciando subito il ricevitore, soggiunse: “Vieni pure, sono quasi pronta!” Aprì il portoncino e si trovò difronte la figura imponente di Norberto.  Brandiva, a mo’ di piccola spada, una rosa rossa e guardava Valentina senza dire nulla. “Mio Dio, ha gli occhi d’oro! – gridò lei a sé stessa – come quelli del cane Bach!”   Si tuffò nello sguardo di lui, giù, giù nell’oro di universi infiniti…  ”I miei… i tuoi, non so più…”  Nel fondo di quegli occhi vide un brillìo: era la chiave che apriva la porta della sua anima per vibrare all’unisono. Il cavaliere dalla spada di rosa rossa e la dama incantevole e incantata restarono lì, come sospesi nel tempo, senza parlare, dialogando solo con gli occhi.  Poi Valentina prese la rosa, chiuse gli occhi e ne aspirò il profumo.  Si slacciò un bottone della camicetta e infilò nell’asola il lungo gambo del fiore.   L’orizzonte si era fatto vermiglio sulla collina di monte Mario, un venticello tiepido portava le note – forse da una radio? – dell’Aria sulla quarta corda… 

Un uomo grande e una donna piccola con una rosa rossa sul petto si allontanavano salendo su per la via Trionfale, verso lo Zodiaco, tenendosi per mano.

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