Ieri sera a cena pensavo di morire, mentre guardavo la foto di Laura.
Come se lei fosse ancora seduta alla mia destra, cercavo la sua mano da stringere, ma c’era solo il vuoto. E quel vuoto l’ho sentito prendermi alla gola e stringere forte, sempre più forte. Ho cominciato a sudare, ad annaspare, avrei voluto gridare aiuto, ma la vista mi si è annebbiata, ho avuto una vertigine e sono caduto a terra, sbattendo la spalla. Dicono che un dolore riesca a scacciare un altro dolore.
Così è successo, almeno in quel momento, perché dopo la botta sono tornato a respirare.
Come può essere finito tutto? Non trovo la risposta.
Non le facevo mancare nulla. Dov’è la colpa nel voler essere presente, condividere ogni cosa, prevenire bisogni e desideri, colmare mancanze? Io non la vedo, ma tant’è. Per lei tutto questo era troppo, era uno starle addosso che non sapeva più di amore, ma di possesso, e che le faceva mancare l’aria, diceva.
“Sei solo, ficcatelo nella testa, Laura se n’è andata”, mi sono detto tornando a sedermi a tavola, deciso a fare finta che non fosse successo nulla. Ma la minestra si era freddata, e il suo sapore era scomparso, com’è già scomparso quello della mia vita.
Dopo aver passato un’altra notte insonne, stamattina ho deciso che devo fare qualcosa per tentare di interrompere il corto-circuito del respiro che si mozza, dell’apnea involontaria, dei lampi di luce che offuscano la visione del mondo, con cui sto progressivamente perdendo la connessione. Così, ho comprato un biglietto per il Key Club. Dev’essere qualcosa di più di un locale notturno, la sua pubblicità in internet mi ha incuriosito.
Ho fatto il giro dell’isolato tre o quattro volte, prima di varcare la soglia dell’ingresso esterno. Il disimpegno è illuminato da piccole luci azzurre, sulla parete ci sono una targa dorata, dove è inciso “Key Club, la tua chiave di svolta”, e il citofono.
Ho suonato e la porta si è aperta con un lieve scatto. Una ragazza, con indosso un costume intero ricoperto di lustrini, mi è venuta incontro, ha preso il mio biglietto e mi ha dato un questionario da compilare. Non ho visto granché del suo viso, ma il suo sorriso sì. Aperto, dolce, accogliente. Mi sono sentito a mio agio e ho cominciato a rispondere alle domande del questionario.
Dati anagrafici, professione. Patologie, scarico di responsabilità.
Patologie? Scarico di responsabilità? A che servono questi dettagli? C’è l’asterisco, però, sono obbligatori, quindi proseguo.
Patologie: sto bene fisicamente, me l’hanno confermato i medici. E’ la mia testa che non sta funzionando come dovrebbe, ma devo scriverlo? Forse no, non ho una diagnosi, non ancora almeno. Scarico di responsabilità: ok, spero non ci siano fregature.
Dovrei riempire il campo libero per descrivere desideri e paure. Accidenti, qui vorrei non dover rispondere, ma gli asterischi sono: uno (campo obbligatorio) e poi due (inutile accedere al locale in assenza di compilazione).
Ci provo, va bene.
Desideri: vorrei che Laura tornasse.
Paure: il soffocamento. La mancanza di respiro, di ossigeno, ogni volta che il pensiero dell’assenza di Laura mi fa sentire come un pesce fuori dall’acqua.
Ecco, ho fatto. Credo sia sufficiente, metto il foglio in una sorta di ruota degli esposti, chiudo lo sportello e attendo. In fondo è proprio così, mi sento un bambino abbandonato, che ripone le sue speranze in quel foglio di carta dove desideri e paure riassumono la sua vita.
La ragazza di prima ritorna e mi prende per mano, perché io la segua. Entriamo in un salottino, le luci sono soffuse, mentre in sottofondo si perdono le note di un pianoforte. Mi versa da bere, mi aiuta a spogliarmi e io la sto lasciando fare come fosse una cosa normale.
Ora è entrata un’altra ragazza, anche lei è sorridente. Ha con sé un sacchetto di cellophane trasparente. Me lo infila in testa, mi fa stendere sul divano, aggiusta i cuscini sotto la mia testa e comincia ad accarezzarmi. Mi spiega che, per interrompere il gioco che sta per iniziare, devo solo stringere, con la mia mano, la mano dell’altra ragazza. Annuisco, guardando entrambe attraverso quel velo di plastica trasparente, mentre sento che lentamente qualcosa di ruvido si sta serrando attorno al mio collo.
Sono in una bolla e sono rilassato, mi piace ciò che sta succedendo, gli affanni di questi ultimi mesi mi sembrano lontani. Il cellophane si gonfia e si sgonfia, mentre respiro il mio respiro. L’aria si riscalda e, sempre più umida, opacizza la pellicola dissolvendo i volti delle ragazze. So che sto consumando l’ossigeno a mia disposizione, ma devo restare calmo, questo è il gioco e lo comando io.
Nei miei occhi cominciano ad accendersi dei bagliori e la testa un po’ mi gira. Inspiro profondamente, ma sembra acqua, non aria, quella che mi entra dentro. Allargo le narici più che posso, vorrei avere le branchie, ma non sono pesce.
Luna aveva il dorso rosso fino alla coda e il ventre bianco iridescente. La sua boccia mi era caduta dalle mani e lei era finita a terra, tra i vetri. In un alone di acqua, si dimenava, allargava le branchie, inarcava il dorso, faceva piccoli saltelli, si contorceva e io ero rimasto a guardare per un po’ quel suo ballare, lì, ai miei piedi. Poi, avevo riempito il lavandino e l’avevo messa dentro, perché potesse tornare a respirare. Però in acqua non danzava più come aveva fatto a terra. Così, avevo aperto lo scarico, svuotato il lavello, e lei aveva cominciato a dimenarsi ancora, mentre io seguivo i suoi movimenti col mio bacino. Avevo ripetuto quel gioco fuori dall’acqua, facendolo durare un po’ di più ogni volta, finché Luna era rimasta immobile sulla ceramica asciutta.
Io avevo solo nove anni e a lei non avevo dato la possibilità di dirmi basta.
Respiro sempre più a fatica, ma non è solo per la mancanza d’aria. A soffocarmi torna prepotente anche il desiderio di Laura. Chiudo gli occhi, vorrei non pensarla, ma la vedo. Non è lontana e mi sta aspettando a braccia aperte. Vorrei correrle incontro, ma come faccio? Boccheggio, il cellophane si appiccica alle mie labbra, mi dimeno inutilmente.
Il bisogno di aria fresca diventa una necessità impellente, così stringo la mano della ragazza, perché cessi questo gioco.
Sentire che la morsa al collo si sta allentando, mi dà un sollievo immediato. Inspiro ed espiro, cercando di seguire un ritmo regolare ma, così facendo, mi rendo conto che l’immagine di Laura nei miei occhi sta svanendo.
Devo raggiungerla, o la perderò davvero per sempre.
“Di nuovo, voglio ricominciare”, dico allora. E il bordo ruvido del sacchetto di cellophane torna a stringersi sul mio collo.
Laura mi appare in primo piano, il sorriso è luce che nasce dai suoi occhi, illumina il suo viso e, di riflesso, anche me. Poi, però, è di nuovo lontana. Io corro, la sto raggiungendo, ci sono quasi, ma lei scompare ancora, e io sbatto contro quel vuoto doloroso che mi prende alla gola, me la serra, mozzandomi il fiato. Comincio ad ansimare, sono movimenti che somigliano sempre di più a singulti, ma non ho il singhiozzo, è che ora non respiro quasi più.
E’ davvero strano, però, in quest’apnea prolungata, mi sembra finalmente di non provare più nessun dolore, nessuna costrizione.
Mi sento leggero, mi sembra quasi di volare e Laura è qui al mio fianco.
Bella, bella, bella amore mio, sono felice.
Rido, stavolta. Mi contorco negli spasmi, ma rido.
Dovevo ubriacarmi di anidride carbonica per capire che eravamo finiti nella stessa trappola senza aria.
Siamo stati due pesci fuori dall’acqua, ma così siamo pari, perché presenza e assenza assoluti, sono sapori diversi di uno stesso veleno.
Ora che Laura è qui, però, non la lascio più andare via. Deve capirlo che solo insieme possiamo essere felici, che possiamo ricominciare.
Vero Laura?
Dimmi di sì, tanto il gioco lo comando io e non stringerò di nuovo la mano alla ragazza per interromperlo.
“Caledonian Road” di Andrew O’Hagan – traduzione di Marco Drago (Bompiani)
Una storia senza innocenti o vincitori, ma solo persone ferite che riescono a farcela con quello che resta dopo un evento drammatico destinato a essere uno spartiacque nelle loro vite.