La Madre di André Gide

André Gide, scrittore francese, premio Nobel per la letteratura nel 1947, al vaglio della aneddotologa Cinzia Zanchi

Regge a malapena la penna, scorre la mano sulla pagina bianca del grande registro aperto senza più tracciare alcun segno. Ha la testa affondata nel guanciale, muove il braccio smagrito ma pare non aver più coscienza di sé né di ciò che le sta attorno. André Gide è stato chiamato al capezzale della madre agonizzante e ha ammesso unicamente la presenza dell’anziana, fedele domestica Marie accanto a sé. 
Fin dall’infanzia ha vissuto in un’ambivalenza affettiva di odio e amore nei confronti della madre venerata e temuta, che ha rappresentato l’autorità in modo eccessivamente severo e dispotico. Gli ha impartito implacabili lezioni di condotta, ossessionata dalla paura che i suoi atti, anche solo la scelta di un libro o la stoffa di un vestito, potessero metterla in cattiva luce davanti alla gente. Ha diretto inflessibilmente la sua educazione con le regole di una morale protestante intransigente, per quello che considerava il suo bene. Ha preteso da André, che come ogni bambino chiedeva affetto ed era pieno di curiosità, sottomissione e obbedienza, senza sentire la necessità di dover dare spiegazioni. Per rispetto al rango dovevano viaggiare solo in prima classe, a teatro prender posto solo nei palchi. Il conformismo confinava con la stupidità quando alle domande rispondeva a sproposito: “Cosa vuol dire ateo?”
“Vuol dire brutto, sciocco”. 
André ricorda di aver covato segretamente sogni di ribellione, ma di aver anche avvertito cedimenti e tracce di dolcezza dentro quella maschera rigida.
La osserva ora mentre incosciente si sforza di scrivere. Le porta via matita e registro, ma lei continua a trascinare il braccio e la mano nello stesso gesto sul lenzuolo: “il suo inquieto bisogno di intervenire, di consigliare, di convincere l’affannava ancora”. E il ricordo della madre mediocre pianista che ha imposto severi esercizio e disciplina alla vocazione pianistica di André ha il sopravvento: “fissando quelle povere mani che avevo appena visto penare così disperatamente, le immaginai sul pianoforte”.
Dopo il lutto, André Gide che ha già scoperto la sua omosessualità, sposa Madeleine, la cugina, che a sua madre assomiglia moltissimo; diventa l’infelice compagna della sua vita sotto il nome, da lui impostole, di Emmanuelle.  
Assertore della sincerità nella narrazione, in alcune pagine confessa lucidamente di non essersi mai completamente liberato dei sensi di colpa e delle fissazioni trasmesse dalla madre, e degli specchi deformanti con cui l’ha abituato a guardare sé stesso e la realtà circostante. 

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