Quel giorno, quando mia madre era venuta a prendermi all’uscita di scuola, la maestra l’aveva fermata:
– Aspetti un momento signora Fanti. Volevo dirle una cosa – aveva detto; poi si era girata verso di me e si era messa a guardarmi seria. Mia madre si era immobilizzata all’improvviso, con gli occhi sgranati, come se una fata cattiva l’avesse toccata con la bacchetta magica trasformandola in una statua di pietra.
– Mi sembra che Gea abbia qualcosa che non va – aveva detto la maestra. – Oggi è stata tutto il tempo silenziosa. Non è da lei. E non solo è stata sempre zitta, ma ha messo su questo faccino triste. Mi sembra anche piuttosto pallida. Vede anche lei? Magari non sta bene… Lei dice di no, che non ha niente. Ma a me sembra che scotti. Magari a casa controlli se ha la febbre.
Mia madre mi aveva guardata aggrottando le sopracciglia:
– Che ti senti? – mi aveva chiesto brusca. – Niente – avevo risposto io. – Come niente? La maestra dice che non stai bene!- Silenzio. Abbassai lo sguardo e non dissi più una parola.
A casa mi venne misurata la febbre. Non ne avevo. – Ma insomma, che hai? – continuava a chiedermi mia madre. – Ti senti qualcosa? Me lo devi dire! – Non mi sento niente – continuavo a ripetere io. – Allora, se non hai niente, smetti di fare la stupida! – disse lei – Piantala di guardare per terra e comportati come si deve!
A quel punto mi mise davanti il piatto con la cena e si sedette a tavola di fronte a me. Non avevo fame. Tagliavo la mozzarella a pezzettini sempre più piccoli, facendo scivolare il coltello avanti e indietro faticosamente, come se fosse di piombo, e mi infilavo i pezzettini in bocca uno alla volta, masticandoli a lungo prima di inghiottire. Ogni tanto alzavo lo sguardo verso mia madre. Lei non smetteva di fissarmi. Mi accorgevo che stava un po’ alla volta perdendo la pazienza. Ma invece di mettermi a mangiare più in fretta quasi avevo smesso del tutto di ingoiare…
– Insomma, basta! – aveva gridato all’improvviso mia madre, alzandosi in piedi e piegando il busto verso di me. – Dimmi che cavolo ti prende! Stai male? Ti hanno fatto qualcosa? Che cavolo hai combinato, insomma!
Scoppiai a piangere: un pianto urlato, a bocca spalancata, coi residui del boccone masticato che mi galleggiavano sulla lingua e la saliva che mi filava pendula dai denti. Lei alzò il braccio destro con un movimento fulmineo, facendomi passare davanti agli occhi la mano col palmo spalancato, pronta a stamparmelo in piena faccia. Il respiro mi si bloccò in gola. Un residuo di mozzarella mi finì di traverso e cominciai a tossire. La tosse si trasformò in un conato di vomito e rovesciai sulla tavola quel poco che avevo mangiato.
Mia madre non disse più nulla. Mi prese sotto le ascelle e mi portò vicino al lavello per sciacquarmi la bocca e il viso. Poi mi asciugò e con le mani mi scostò i capelli dalla fronte, portandoli verso le tempie. Nel farlo lasciò scorrere le mani calde sulle guance e finì unendole sotto il mento. Io avevo smesso di piangere. Restava ancora qualche singulto, ma sempre più breve e meno profondo. Stavo meglio ora. Tutto il mio corpo si stava rilassando. Ma non potevo dire nulla. Come si fa a dire una cosa così terribile?
Mia madre mi aiutò a sfilarmi i vestiti e a mettermi il pigiama. Poi mi rimboccò le coperte. Poggiò il palmo della mano sulla fronte, mi accarezzò i capelli e si allontanò, lasciando socchiusa la porta della camera da letto. Le lenzuola erano fresche e lisce e profumavano di pulito. Ma io mi sentivo sporca. Era come se fossi diventata nera dentro. Forse da fuori non si vedeva. Ma io non ero più la stessa.
Ci avevo provato a resistere, ma era stato più forte di me. Nel prato, la domenica pomeriggio, avevamo giocato alle signore che vanno a fare la spesa. Le altre bambine avevano portato tutto quello che serviva: passeggini, bambole, cestini, frutta finta, borsette. Io invece non avevo nulla. Per farmi giocare mi avevano dato una borsetta traforata di plastica rosa con dentro un borsellino, che sembrava non interessare a nessuno. Nemmeno a me piaceva la borsetta, però il borsellino mi piaceva tantissimo. Non ne avevo mai visto uno così bello: era piccolo, ma fatto con una pelle morbidissima di colore verde scuro, il mio colore preferito. Lo aprii: conteneva tre monete da due euro. Le tirai fuori, ne sentii il peso sul palmo della mano e subito le rimisi dentro. Come si chiudeva bene quel borsellino! Per chiuderlo non si doveva forzare troppo né troppo poco e faceva quel delizioso “click” che ti rassicurava, come a dire: “Tutto a posto: custodisco qui dentro di me con cura tutto quello che tu ci hai messo, fino a quando non mi aprirai di nuovo.”
Nel prato c’era un cespuglio che aveva un varco tra i rami nel quale ci si poteva infilare. Andavo lì e di nascosto tiravo fuori il borsellino e me lo passavo tra le mani: era così morbido sotto le dita! Ogni volta il cuore mi batteva forte, mentre immaginavo di ficcarmelo in tasca. Ma poi, dopo averlo lisciato, aperto e richiuso, lo rimettevo al suo posto nella borsetta di plastica rosa.
Finché una delle madri non stabilì che era ora di andare.
– Bambine! – la sentii dire ad alta voce – raccogliete tutto e andiamo! Si è fatto tardi! – Allora, incapace di fermarmi, osservai le mie mani tirare fuori il borsellino dalla borsetta di plastica e infilarlo in fondo alla tasca del cappotto. Mentre tornavamo a casa mi sentivo trionfante. L’avevo preso. Adesso era mio. Tanto a nessuno importava niente di quel borsellino. Avrei potuto giocarci tutto il tempo che volevo, accarezzarlo, aprirlo, riempirlo, svuotarlo richiuderlo, fare quello che volevo col mio borsellino. Si. Però di nascosto.
E adesso non riuscivo a dormire. Continuavo a pensare a come far sparire il borsellino, come se questo potesse cancellare anche la brutta cosa che avevo fatto. Forse non dovevo lasciarlo nella tasca del cappotto durante la notte. Mia madre avrebbe potuto andare a rovistare e trovarlo. E allora sì che mi avrebbe guardata con occhi di ghiaccio, peggio di quelli della strega di Biancaneve, e digrignando i denti per la rabbia avrebbe afferrato la paletta di legno che usava in cucina e mi avrebbe colpita sulle natiche e sulle cosce, fino a farmi sanguinare! E io sarei morta di dolore e, ancora di più, di vergogna per quello che avevo fatto. No. Non potevo lasciarlo lì. Dovevo andare a prenderlo e nasconderlo in fondo al cassetto della mia scrivania, sotto alla pila dei disegni che conservavo dai tempi dell’asilo. Li mia madre non sarebbe andata a rovistare. E magari qualche volta, prima di farlo sparire per sempre sotterrandolo in un prato, avrei potuto giocarci ancora.
Scesi dal letto a piedi nudi e mi avvicinai alla porta. Sbirciai dallo spiraglio rimasto aperto: nel corridoio non c’era nessuno. Mia madre doveva essere in salotto a guardare la TV: sentivo provenire da lì bisbigli indistinti e, in sottofondo, la musichetta della pubblicità degli ovetti Kinder. Aprii la porta della camera quel tanto che bastava per sgattaiolare nel corridoio. Passando davanti al salotto vidi la schiena di mia madre appoggiata allo schienale del divano. Sullo schermo della TV un coniglietto rosa, una papera gialla e una ranocchia verde facevano il girotondo intorno a un ovetto Kinder più grande di loro. Sperando che lei non si stufasse della pubblicità degli ovetti mi sbrigai a raggiungere l’armadio dell’ingresso dove, tornando a casa, lasciavamo appesi le giacche e i cappotti. A tentoni, nella penombra, trovai il mio cappotto e infilai la mano nella tasca destra. In quel momento l’oscurità diventò all’improvviso più intensa, facendomi voltare di scatto verso il corridoio. Mi madre era lì, in piedi, che mi guardava.
– Che stai facendo? – disse, con tono indagatore. Deglutii, prima di emettere un flebile – Niente! – Come niente! – continuò lei. – Che ci fai ancora alzata, a piedi nudi qui all’ingresso? – Tutti i miei sensi erano in allerta; la risposta arrivò fulminea: – Stavo prendendo il fazzoletto dalla tasca del cappotto. Mi cola un po’ il naso. – Vieni qui – fece mia madre. – Allora è vero che non stai bene. Starai covando un’influenza. – Mi tremavano le gambe, ma cercai di restare impassibile, mentre mi avvicinavo a lei stringendo nel pugno il mio borsellino. Le passai a fianco e filai dritta verso la camera. – Adesso ritorno a letto – dissi in fretta.
– Aspetta – continuò mia madre. Mi immobilizzai, terrorizzata. – Dammi quel fazzoletto sporco. Te ne prendo io uno pulito. – Mi uscì dalla gola un “no!” quasi urlato. Poi aggiunsi, cercando di assumere un tono di voce più normale: – Non è sporco. Va bene questo – Dammi qua – disse mia madre afferrandomi per un braccio. Poi, vedendo che non aprivo il pugno, cambiò espressione: fra gli occhi comparve una linea verticale e le pupille si fecero piccole e puntute, come quelle che hanno i robot alieni un attimo prima di sparare dagli occhi il raggio distruttore. – Che cos’hai li? Fammi vedere! – gridò, prendendomi il pugno. Con una mano mi stringeva il polso e con l’altra spingeva con forza le punte delle dita fra le mie, cercando di farmele schiudere. Io avevo le unghie conficcate nel palmo, nell’ultimo disperato tentativo di resistenza. Impossibile. Cedetti. La mano si aprì, mettendo a nudo il borsellino. Mi sentii come se mi avessero spellata viva e stessero frugando dentro il mio corpo, privo ormai di ogni protezione. Scoppiai in un pianto silenzioso, a bocca spalancata. Adesso aspettavo la punizione.
Invece mia madre tornò calma. – Cos’è questo? – chiese gelida. – Da dove viene? – L’ho rubato! – dissi tra le lacrime, con una vocetta esile tutta di gola. – A chi l’hai rubato? Quando? – riprese, diventando tutta rossa in viso. – Domenica, a Francesca, quando giocavamo nel prato – aggiunsi piano. A quel punto mi diede uno strattone e, senza mollarmi il polso, si diresse furiosa verso la cucina, trascinandomi dietro come un sacco di patate. Aprì con uno strattone il cassetto del tavolo e tirò fuori la paletta di legno. – La vedi questa? – gridò. – Adesso te la spezzo sui reni, brutta stupida! Come ti è venuto in mente di rubare? –
Le gambe non mi reggevano più: mi piegai sulle ginocchia. – Mi piaceva troppo! – riuscii solo a dire fra i singhiozzi. Sentii un calore improvviso nelle mutandine e vidi allargarsi per terra una pozza di pipì. A quel punto cominciai a divincolarmi con tutte le forze, urlando come una forsennata: – Aiuto! Aiuto!
Mi madre restò per un momento immobile e diventò pallida. Posò la paletta sul tavolo. Mi tirò su per le braccia, mi tolse le mutandine bagnate e mi mise in mano un bicchiere d’acqua. – Calmati adesso – disse. Io bevvi piano, emettendo piccoli rantoli fra un sorso e l’altro. Poi la guardai disperata. – Non voglio essere una che ha rubato! – esclamai. – Voglio tornare come prima! – Vuoi tornare come prima? – Ripeté mia madre con tono interrogativo. Stranamente, adesso mi sembrava quasi divertita. – Sì! – Risposi disperata. – Come faccio a tornare come prima, mamma? – Mia madre restò per un po’ in silenzio. Poi si allontanò di un passo e guardandomi dall’alto mi disse: – C’è un solo modo: lo devi restituire. – Ma io mi vergogno! – urlai. Mi madre mi venne più vicino e inclinò un po’ la testa di lato, in direzione del mio orecchio. – Non hai bisogno di dire che lo hai rubato. Puoi dire che lo hai portato a casa per sbaglio. – È una bugia! – dissi io. Avevo la voce ancora concitata, ma dentro di me cominciavo a calmarmi. – Sì – rispose lei. – È una bugia, ma detta per rimediare a uno sbaglio di cui ti sei pentita. Per questo la puoi dire.
La mattina dopo ero uscita di casa portando con me il borsellino. Il cortile della scuola brulicava di ragazzini e di mamme che aspettavano la campanella d’inizio delle lezioni. C’era anche Francesca, che si stava avvicinando a un gruppetto della sua classe. Appena l’avevo vista mi ero sfilata dalla mano di mia madre, le ero corsa incontro e, ancora ansimante, avevo tirato fuori dalla tasca il borsellino e mi ero precipitata a dirle: – Tieni! Mi era rimasto in tasca per sbaglio. Me ne sono accorta stamattina – Ma lei a quel punto me lo aveva strappato di mano e sollevandolo in alto, col braccio teso, si era messa a urlare: – Non è vero! Tu me lo hai rubato! Sei una ladra! Ladra e bugiarda!
Tutti si erano girati a guardare. Io avevo sentito le guance andare in fiamme. Con gli occhi sbarrati, il petto che si alzava e si abbassava senza controllo, avevo voltato la testa da una parte e dall’altra, in cerca di mia madre. Lei era dietro di me. Mi afferrò per le spalle e mi fece fare un giro su me stessa. – Ti sta bene – sibilò – Così impari a rubare e a dire le bugie.
Dentro la lampada
Il cestino dell’amore
Un soldatino di piombo incontra una ballerina nell’ultimo posto in cui avrebbe mai pensato di potersi innamorare.