Gabriel García Márquez racconta a Neruda (1) che la sua aspirazione, come romanziere, è di conferire alle sue storie soluzioni poetiche piuttosto che narrative. Il suo traguardo è tradurre il racconto, la narrazione in poesia.
E non è l’euforia alcolica di un pranzo di festa o l’intenzione di rendere omaggio all’amico Neruda a farlo esprimere così. E’la convinzione autentica che la poesia peschi nei livelli più profondi della realtà e sia in grado di ritrarne il respiro essenziale. In un’intervista condotta da Giovanni Minoli (2), dice “Ho l’impressione che dietro la realtà immediata, quella che vediamo, esista un’altra realtà che solo l’intuizione poetica riesce a captare, a raggiungere. E’questo che appare fantastico nel libro (Cent’anni di solitudine).”
Rifiuta la definizione di realismo magico e precisa “la realtà, quella dei Caraibi, dell’America Latina ma, credo, la realtà in generale, è molto più magica di quanto possiamo immaginare. Siamo ancora troppo influenzati da Descartes”
Ci tiene a chiarire che il suo artigianato creativo non si riassume in un gioco dell’immaginazione o in artificio stilistico. “Uno può raccontare quello che vuole ma se per primo non crede che sia vero, il lettore non ci crederà mai”.
“L’immaginazione occupa davvero poco spazio nel mio lavoro”. “La memoria costituisce il novantanove per cento del materiale del racconto (…) l’immaginazione serve per modellare. Non c’è una sola riga della mia narrativa che non abbia origine nella memoria”
García Márquez racconta di aver iniziato Cent’anni di solitudine a diciassette anni, e di averlo “abbandonato nel giro di poco perché mi stava troppo grande (…) il primo paragrafo non ha una virgola in più né una virgola in meno del primo paragrafo scritto vent’anni fa.” Sei anni dopo, nel 1950, pubblica in tredici puntate “La casa de los Buendía. Sottotitolo: appunti per una novella” nella rivista colombiana Crónica. In questo racconto compaiono Aureliano Buendía, la casa di famiglia e Macondo.
Quando, nel 1966, Cent’anni di solitudine ha ormai preso forma, García Márquez scrive al suo amico Plinio Apuleyo Mendoza “Il mio antico e frustrato desiderio di scrivere un lunghissimo poema della vita quotidiana è sul punto di realizzarsi”.
E quindi propone in lettura agli amici più fidati proprio i passaggi che considera più innovativi e che gli stanno più a cuore, quelli cioè che ricorrono a soluzioni poetiche. Episodi come l’incipit, l’ascensione di Remedios la bella, la peste dell’insonnia e la pioggia a Macondo della durata di quattro anni, tra gli altri. I brani che predilige. E, del resto, quelli che lo preoccupano di più, per la dubbia verosimiglianza.
A proposito dell’apporto di suggerimenti e pareri di amici scelti, l’autore scrive in un articolo per El País “Quando la casa editrice mi ha inviato la prima copia delle prove di stampa, le ho portate, già corrette, a una festa a casa degli Alcoriza, soprattutto per soddisfare la curiosità insaziabile dell’invitato d’onore, dom Luis Buñuel, che si è prodotto in ogni tipo di riflessione magistrale sull’arte di correggere, non per migliorare ma per nascondere”.
E, finalmente, in un’altra lettera a Plinio Apuleyo Mendoza (3):
“Quel che dici del primo capitolo di Cent’anni di solitudine mi ha reso molto felice. Quando sono tornato dalla Colombia e ho riletto quel che avevo scritto, ho avuto la sensazione deprimente di essermi imbarcato in un’avventura che avrebbe potuto finire in una catastrofe come in un trionfo. Così, per capire come l’avrebbero vista gli altri, ho spedito il primo capitolo a Guillermo Cano: poi ho chiamato a raccolta gli amici più esigenti, esperti e sinceri, e gliene ho letto un altro.
Il risultato è stato magnifico, soprattutto perché per quella lettura avevo scelto il più rischioso: l’ascensione al cielo di Remedios la Bella, in corpo e anima (…) L’unica cosa che permette di far salire in aria una donna in anima e corpo è la vera poesia.”
(1) García Márquez intervista Neruda
(2) Minoli incontra García Márquez
(3) Quegli anni con Gabo. Di Plinio Apuleyo Mendoza, Casa editrice Anordest